Intervista a Franco Maria Viganò – Cattiverie – Il Rio Edizioni

Intervista a Franco Maria Viganò – Cattiverie – Il Rio Edizioni

Franco Maria Viganò

Abbiamo da poco recensito “Cattiverie” (Il Rio Edizioni) di Franco Maria Viganò. Cogliamo ora l’occasione per scambiar quattro chiacchiere con lui per approfondire alcuni punti del suo nuovo libro e per conoscere i suoi progetti futuri.

Buongiorno Franco Maria, grazie per aver accettato di chiacchierare con noi. Mi permetto di darti del tu se per te non è un problema:

D: È la prima volta che ti recensiamo e che quindi abbiamo il piacere di intervistarti. Ci piace prima di tutto conoscere meglio l’autore che andiamo a scoprire di cui impariamo ad apprezzare le opere. Assieme all’artista ci piace conoscere la persona. Ci puoi raccontare qualcosa di te?

R: Quando devo raccontarmi, sprofondo in un imbarazzo da romanzo d’appendice.                          Ho avuto una vita variegata e non conforme, storta e piena. D’estrazione medioborghese, per benino e ligio, covavo rivolta proprio perché non lo ero. Erano i muscolosi anni ’60 e ci si proiettava automaticamente nel futuro. Almeno lo facevano gli altri mentre io scricchiolando varcavo le porte di melanconia, solitudine ed estraniazione, le mie parche private. Così il famigerato 68 mi pescò facilmente e senza spine; piombai dal mio precipizio mentale, innamorandomi per di più di una ragazza dolcestilnovista: amore impossibile che si trasformò nel ricatto a una realtà distopica che m’imbrogliava. Spontaneamente seguirono depressioni, tentativi di suicidio, uso di stupefacenti, alcool e via dicendo: tutto ciò che era tossico mi attraeva come un toccasana. Però ogni volta rimbalzavo come su un trampolino elastico. Scrivevo tanto e la parola era la mia unica compagna di giochi.

Infine, al ritorno da un viaggio in Olanda con relativo ‘choc Van Gogh’, mi segregai in un casolare sulle colline torinesi: e lì cambiai, miracolosamente. M’innamorai di una ragazza di origini ebraico-protestanti, ci sposammo, nacquero tre figli (Noemi, Vanessa e Joele) con cui ho un rapporto bellissimo ma che purtroppo vivono lontani (Irlanda, Francia, Firenze) per un totale di sei nipoti strappacuore (Liù, Oscar, Michelle, Maddalena, Rain e Delilah).

Attualmente sto scontando le cambiali degli stravizi dell’epoca d’oro (o di bronzo, a seconda della prospettiva), ma lo reputo giusto, sono un tipo corretto che ripaga i debiti.

Ho scritto fin dall’adolescenza, scrivere era la mia ombra, fedele, creativa e consolatoria. Poesie per tanti anni, molte sentite ma impresentabili, poi racconti più o meno lunghi. Infine, nei primi anni 2000, l’esplosione di ‘La soffitta’, un romanzo fantastico d’incerta definibilità, di circa 800 pagine, scritto in un arco quadriennale nel solaio di casa mia all’alba.

Ne è protagonista un bambino adolescente, coadiuvato da un gatto e da un amico immaginario oltre che dai mille oggetti abbandonati in un caotico sottotetto che si animano e riprendono vita. Credo in questo scritto tanto da averlo auto editato, dato che gli editori si spaventavano per la mole (in brossura pesa 1,3 kg). L’ho presentato alla Feltrinelli di Monza anni fa.

Recentemente è stata la volta di ‘Di cosa scriviamo quando scriviamo poesie’, una raccolta di poesie per l’appunto, inviata al Rio edizioni insieme con ‘Cattiverie’. Con l’editore abbiamo deciso che era meglio pubblicare quest’ultimo, vista l’ostilità generale per le pubblicazioni poetiche.

Di fianco alla scrittura ho amato ed amo la fotografia (i primi scatti furono alla tomba di Bakunin a Neuchatel); è lo stesso meccanismo di caccia, stavolta all’immagine piuttosto che alla parola, con il medesimo intento: cogliere il frammento, soprattutto quello spezzato.

Ho fatto parte dell’agenzia Photoaid di M. Cazzani e realizzato vari servizi su non-vedenti (Turchia), malati di Alzheimer, comunità di recupero e istituti d’accoglienza, festival musicali tipo Mi-To, fotodocumentari di viaggi e feste popolari eccetera. Parallelamente ho sviluppato tecniche mie personali per esaltare l’aspetto onirico della fotografia (due mostre abbastanza recenti a Firenze e Milano, ‘Ipercontrasti’ e ‘Elicitazioni’), seguendo il principio: ‘la realtà non è mai lei’.

 

D: Come nasce “Cattiverie”?

R: ‘Cattiverie’ nasce da un’esigenza d’essenzialità e di sincerità: ero attratto dagli schizzi calligrafici giapponesi, in pochi tratti di china e ovviamente dagli haiku; e dalla forza di tanti episodi trascurati, le famose ‘sacre ore senza storia’, in genere retaggio dimenticato dei perdenti, genia che amo e colleziono nel cuore per naturale attrazione. Così ho accumulato ricordi, narrazioni, a volte invenzioni, disseppellendoli e rivisitandoli. Il titolo è nato soprattutto dai primi episodi, piuttosto cinici, sculturine acuminate nemiche di una retorica superficiale: con il vizio di un perpetuo romanticismo di fondo, sinonimo di speranza d’utopia, rispetto del dolore, desiderio d’altro.

D: I quattro personaggi principali delle tue storie (Mario, Thea, Maria e Dario) sono molto particolari. Cosa ti ha ispirato la loro creazione? C’è in loro qualcosa anche di autobiografico? Dei quattro c’è uno che preferisci?

R: Dario, Mario, Maria e Thea sono quattro ma sono tutti: burattini anonimi e coscienti, non vengono creati, esistono. Trovavo riduttivo e dispersivo chiamarli col loro singolo nome anagrafico: in fondo è sempre la stessa commedia umana che nella moltitudine degli individui, degli spiriti e delle situazioni si riduce all’aritmetica bambina di un comune DNA elementare.

Recitano autobiografici, quasi sempre. Inventati, alcuni. Stravolti, spesso.

Non prediligo nessuno dei quattro, per me identici e intercambiabili (forse Dario è più me degli altri, ma solo un po’). I nomi li ho mutuati da due gemelli slavi (Dario e Mario, rimati e armonici), Maria talmente facile e semplice che più non si può – ed è il nome di una mia cara nipote tortuosa, affezionata e ultra vegetariana, Thea mi è sempre piaciuto per il suono anche perché al maschile era il fratello di Van Gogh.

 

D: La struttura del tuo libro, tanti brevi aneddoti, ha un qualcosa quasi di musicale. Se dovessi scegliere una playlist come accompagnamento di “Cattiverie” che brani sceglieresti?

R: Se dovessi scegliere una colonna sonora per ‘Cattiverie’ inizierei sicuramente con ‘The gnome’ di Syd Barrett, cui tra l’altro è dedicato un episodio inventato del libro. Terminerei con ‘Hallelujah’  di Leonard Cohen o Jeff Buckley (o in sua vece ‘In my secret life’ di Cohen), passando per ‘Perfect day’ di Lou Reed, ‘Aqualong’ dei Jethro Tull, ‘On the road again’ dei Canned Heat, ‘Summer ‘68’ & mucche di ‘Atom heart mother’ dei Pink Floyd, ‘Summertime’ della Joplin, ‘L’orologio degli dei’ di Allevi, ‘The first time I saw you face’ Celine Dion o Crosby, ‘Desperado’ – Eagles, ‘It was always you’ – Philip Glass, ‘Young forever’ – Jay-Z, ‘Bang bang’ – Nancy Sinatra, ‘Molly Malone’ – Dubliners, ‘The show must go on’ – Queen, ‘Love goes on’ – Renaissance, ‘Born to be wild’ – Steppenwolf, ‘Talking about a revolution’ – Tracy Chapman, ‘Cathedral song’ – Tanita Tikaram, e se ci sta il mio Tenco di ‘Lontano lontano‘ e ‘Ciao amore ciao’.  Un vero pastrocchio, per di più retrodatato e vecchiotto, ma mio.

Apprezzo l’idea della parola sposata con la musica; è una tecnica che applico in fotografia, dove accanto ai reportage di foto creo i relativi slideshows, proiettabili su schermo in conferenze/biblioteche ecc., cercando di scegliere brani musicali che abbino al tema fotografico (ad esempio la malinconia tragica degli alzheimer, la pirotecnia delle feste e danze popolari tra tammurriate e tarantelle).

 

D: Perché hai deciso di strutturare il libro in questo modo particolare?

R: Oggi fatico a scrivere, come facevo anni fa, in un modo dilatato, prolungato: sgrosso i periodi per renderli ossuti ed essenziali. Il foglio A4 diventa il recipiente ideale, nei suoi limiti di capienza. È il recinto dell’aneddoto, la cornice dello schizzo, il tempo che è durato, lo spazio che ha occupato. Detesto il prolisso, il compiaciuto, l’orpello inutile e/o retorico.  Per abusare di un vecchio adagio è il libro che mi ha strutturato, più che io lui.

 

D: Intrigante anche la copertina, vuoi parlarcene?

R: In copertina un dipinto ad acquerello di Giacomo Dabbah, mio suocero, persona squisita di una non-ambizione senza precedenti nonostante la sua attività di cardiochirurgo infantile. Gli volevo molto bene e apprezzavo i suoi aforismi in particolare. Il disegno rappresenta un nonsoché di cardinalizio nella sua massa carminio con le mani giunte sul petto in una sorta di dubbio, e il capo occultato da cirri d’alta quota (la classica ‘testa tra le nuvole’).

Non so come possa interpretarsi, mi viene soltanto in mente un’intonazione di fado, una presenza assente, alla portoghese, una sottospecie di misericordia fantasiosa che ben si addice alle cattiverie umane.

 

D: Franco Maria Viganò che progetti ha  per il futuro? Hai già in cantiere qualche nuovo progetto letterario?

R: Sto scrivendo un altro libro, cui, per esperienze recentissime, ho trovato il titolo di ‘Ammonio’, sequel di ‘Cattiverie’, più filosofico e meno cronachistico, meno aspro e un po’ più dolce, con gli stessi Dario, Mario, Maria e Thea ad accompagnarne le storie alzandone ed abbassandone il sipario. L’editore sembra interessato, conto di terminarlo entro l’anno. Con la poesia ho invece ho una pratica di divorzio in atto a meno di ravvedimenti futuri; mentre un romanzo un po’ ‘impossibile’ è sempre sotto le mie dita e nel mio pensiero, scalpitante nell’animo, per ora appisolato.

Spero di aver detto qualcosa, e che di questo qualcosa possiate farvi un’idea. E di risentirvi presto, mentre vi saluto con affetto

Franco Maria Viganò

Ringraziamo di cuore Franco Maria Viganò per aver risposto alle nostre domande e speriamo di averlo al più presto ancora ospite sulle pagine de I gufi narranti

David Usilla

 

Una risposta a “Intervista a Franco Maria Viganò – Cattiverie – Il Rio Edizioni”

  1. Ho trovato molto interessante l’intervista di Franco Maria Vigano’. È chiaramente una persona che ha avuto una vita difficile e tormentata ma che ha trovato sollievo scrivendo. Sono felice per lui!

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