L’ estate del ’62 – Racconto inedito di Rosario Russo

L’ estate del ’62 – Racconto di Rosario Russo

estate

Alle nove in punto del mattino raggiunsi quella che forse sarebbe stata la mia nuova reggia. Si trattava di un palazzo antico, la cui esuberanza decorativa della facciata esterna richiamava all’arte barocca del Settecento. Il proprietario, tale professore Motta si trovava già lì, pronto a mostrarmela. Questo significava che l’annuncio sul giornale era autentico. Cinque vani più terrazzo: quello scrigno era in vendita ad un prezzo irrisorio. O si trattava di una casa infestata dai fantasmi oppure quel distinto vecchietto era un folle. Propesi per quest’ultima ipotesi. Del resto al telefono mi aveva confermato che l’immobile era in vendita a quella cifra, ma ad una sola condizione, la quale me l’avrebbe svelata esclusivamente in sua presenza. Che diavolo significava?

Prego, si accomodi.

Con le dita tremanti, il professor Motta infilò la chiave nella serratura e la fece girare. L’elegante portone in legno si aprì davanti a me ed insieme salimmo una rampa di scale in pietra lavica smaltata;

Eccoci. – disse il professore mentre spalancava un’altra porta leggermente malandata.

Attraversammo un lungo corridoio che conduceva alle camere. Esaminai la situazione. L’ambiente era vuoto ed echeggiante; certo, avrei dovuto dare una rinfrescata alle pareti, reperire un mobilio decente e ripristinare gli impianti elettrici ed idraulici ma alla fine ne sarebbe valsa la pena. Accedemmo all’ultima stanza, quella che conduceva al terrazzino. Due imponenti fotografie in bianco e nero adornavano le pareti. In una era ritratto un uomo con un folto paio di baffi in uniforme militare mentre nell’altra invece stava una donna vestita in maniera elegante con in braccio un bel gatto persiano. Erano entrambi accomunati dalla fierezza tipica che contraddistingueva i siciliani di un tempo.

– Quelli erano i miei genitori. – mi spiegò il vecchietto – Chiaramente una volta raggiunto l’accordo provvederò a riprendermi le fotografie. Adesso le mostro la terrazza.

Detto ciò, il professore aprì una porta in vetro che separava i due ambienti e ci dirigemmo fuori. Mi affacciai sulla ringhiera. Sotto stava una strada trafficatissima. Rumori di clacson ed urla inferocite da parte degli automobilisti arrivavano fin lassù ad oltraggiare la struggente bellezza del posto. Di fronte invece si ergeva un orrendo casermone di minimo quindici piani che equivaleva ad un vero e proprio pugno in un occhio. Quell’antico palazzo in cui mi trovavo sembrava tagliato fuori da qualsiasi dimensione. Il professore sembrò accorgersi dei miei pensieri;

Una volta non era così… – disse sospirando.

Qua doveva essere tutta campagna… – risposi con un luogo comune.

A quanto ho capito lei non è di Acireale, giusto?

Esattamente, sono di Comiso. Però insegno storia dell’arte qui al liceo.

Diceria dell’untore…

Prego, scusi? – chiesi perplesso.

No niente, citavo il capolavoro di un suo compaesano, Gesualdo Bufalino. – rispose sorridendo il professore.

Ah Bufalino, ma certo. Peccato…

Peccato, cosa?

Che a parlarne siamo rimasti in pochi. – esclamai amareggiato – Se chiedessi di lui tra le nuove generazioni comisane, risponderebbero soltanto che così viene denominato il liceo scientifico del paese. Nient’altro.

Sa cosa sosteneva Bufalino sull’ignoranza dilagante? Che la cura doveva essere una sola: libri, libri, libri. E direi che ha perfettamente ragione. Anch’io come lui, ho un rapporto con la realtà legato ai ricordi, alle memorie, e questa casa ne è l’esempio. Ci ho abitato fino ai quindici anni. Come diceva Plinio il Vecchio? Casa è dove si trova il cuore e io qui ce lo lasciai…

Ma allora perché la vuole vendere? – mi azzardai a chiedere;

In effetti non ho mai voluto farlo ma vede, ho settant’anni ed il mio unico figlio vive e lavora all’estero. E dato che non ha nessuna intenzione di tornare, preferisco venderla adesso piuttosto che abbandonarla a sé stessa nel momento in cui anch’io renderò l’anima al Signore.

Capisco perfettamente. Comunque, lei al telefono mi parlava di una condizione necessaria affinché io possa acquistare la casa…

Prima che io le sveli di cosa si tratta, lasci che le racconti una storia. Una storia risalente all’estate del 1962. All’epoca non ero altro che un ragazzino di dodici anni, ma nonostante la giovane età, avevo già vissuto diversi eventi dolorosi. Mia madre era da tempo ridotta sulla sedia a rotelle a causa del morbo di Pott, mentre mio padre due anni prima era scomparso in mare dopo essersi avventurato in barca con un amico. Quella povera donna non si era mai rassegnata all’idea della perdita di suo marito ed ogni santissimo giorno passava lunghe ore su questo terrazzino con un cannocchiale in mano, intenta a scrutare il mare nella speranza che da un momento all’altro potesse scorgere tra le onde proprio la barca con la quale si era avventurato mio padre.

Mi scusi. – feci io interrompendolo – Ma da qui il mare non si vede proprio…

Ecco. Proprio in quell’estate del ’62, era accaduta una cosa che ruppe inesorabilmente il precario equilibrio di quella donna. Mi trovavo in casa di mia zia Marietta, non lontano da qui, quando improvvisamente qualcuno, non ricordo chi adesso, mi ingiunse di recarmi di corsa da mia madre. Quando la raggiunsi, avvilita tra le lacrime mi indicò di affacciarmi sul terrazzo e guardare giù. Era successo che in pieno boom edilizio, avevano iniziato la costruzione dell’enorme palazzone che ancora oggi si staglia davanti a noi in tutta la sua bruttezza. Sa perché mia madre ne era così disperata? Quell’orrendo fabbricato le avrebbe tolto una cosa di fondamentale importanza, l’unica che le permettesse in qualche modo di continuare a vivere…

La vista del mare! – risposi istintivamente.

La vista del mare. E difatti, una volta completato il palazzo, non riuscendo più a scorgere nient’altro che cemento, quella povera donna si abbandonò inesorabilmente a sé stessa, giungendo alla morte nel giro di pochi anni.

Che storia terribile. – dissi con un filo di voce.

Già. Pensi che mia madre ha subito lo stesso destino di questa città. La cementificazione selvaggia ha tolto ad entrambe le loro identità insieme alle abitudini tanto consolidate. Un tempo Acireale era bellissima, ricostruita in maniera sublime sulle macerie del terribile terremoto del 1693. È incredibile come siano riusciti a rovinarla nel giro poco tempo.

Quindi professore, cosa vorrebbe che io facessi affinché possa vivere qui?

In un moto di tenerezza, il professore mi strinse un braccio guardandomi fisso negli occhi;Ogni mattina, prima di recarsi a lavoro, non perda l’occasione di osservare il mare. Basta superare il palazzaccio e se lo ritroverà davanti. Mia madre non sarebbe mai stata in grado di farlo, lei sì invece. Non lo prenda come un ridicolo vezzo di noi gente costiera, o peggio ancora, come una assurda malattia di cui inesorabilmente ne soffriamo. Quella immensa distesa d’acqua le servirà semplicemente a ricordare che nessun ostacolo potrà privarci della nostra libertà di sognare.

Rosario Russo

Dell’autore abbiamo recensito il romanzo: Quattordici spine01 edito da Algra

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