Intervista a Irma Hibert – “La Sopravvissuta” (Battello Stampatore)

Intervista a Irma Hibert – “La Sopravvissuta” (Battello Stampatore)

La Sopravvissuta

 

Abbiamo da poco recensito “La Sopravvissuta” (Battello Stampatore) di Irma Hibert. Cogliamo ora l’occasione per scambiar quattro chiacchiere con lei per conoscerla meglio e per approfondire alcuni punti del suo nuovo libro

Buongiorno Irma, grazie per aver accettato di chiacchierare con noi. Mi permetto di darti del tu se per te non è un problema:

Nessun problema, anzi qua siamo tra amici, amanti della lettura! Buongiorno.

 

  • La sopravvissuta è un libro dichiaratamente autobiografico in cui sostanzialmente racconti la tua infanzia che la guerra ti ha di fatto strappato. Come prima domanda vorrei però chiederti chi è Irma Hibert oggi?

 

Hmm, che bella domanda. Chi è Irma oggi? Beh, sicuramente molto diversa dalla Irma di 25 anni fa che ha vissuto il conflitto. Il tempo cambia e trasforma tutte le cose, le esperienze di vita ci fanno crescere e cambiare. Sicuramente oggi sono più consapevole di tante cose, anche più forte se vogliamo, più capace di osservare le cose che mi sono accadute mettendole in una giusta prospettiva, assieme ai sentimenti e i ricordi. Oggi sicuramente mi sento ancora una sopravvissuta, ma così come mi sento un’insegnante, mamma, moglie, donna, viaggiatrice, scrittrice…

  • Come detto l’infanzia ti è stata strappata dalle bombe, dall’assedio che per 4 lunghi anni ha reso la tua città, Sarajevo, una sorta di inferno in Terra. Cosa ti ha lasciato dentro quell’esperienza così traumatica?

 

Sicuramente le esperienze forti come questa lasciano cicatrici che poi sono difficili da guarire. Uno va avanti con la propria vita e pensa di avere superato il trauma, ma poi magari in un giorno di pioggia con il rumore dei tuoni, o guardando un film di guerra, o semplicemente ascoltando una musica triste uno viene catapultato in quella dimensione che pensava, o sperava, fosse ormai il tempo passato della sua vita. Ecco, così è per me. Sono ricordi ai quali torno con fatica, ricordi che mi fanno soffrire ma che inevitabilmente riaffiorano quando meno me lo aspetto. Se c’è però una cosa positiva che ho imparato da quei quattro anni d’assedio e di guerra, perché in ogni cosa anche più dolorosa qualcosa di buono c’è: la vita è così, allora io penso che quella cosa positiva sia l’impulso irrefrenabile verso la vita, la volontà di realizzarmi, la volontà di non arrendermi mai, la tenacia, la caparbietà, la forza d’animo. Ciò che ho imparato è che qualsiasi ostacolo può essere superato, anche se non sempre è facile, questo è ovvio.

 

  • Uno dei punti su cui ti soffermi maggiormente è quello della scuola, di come da un giorno all’altro le lezioni si sono interrotte per non riprendere, di fatto, più. Quanto incide, al di là di quello che lascia dal punto di vista delle pure conoscenze, nella crescita di un ragazzo una mancanza come quella della scuola?

La scuola è un momento fondamentale della vita di ogni persona. Non solo è il luogo degli apprendimenti, bensì è un luogo della prima socializzazione seria di ogni essere umano. È il luogo nel quale impari a confrontarti con gli altri, pensare, riconoscere i tuoi limiti, le tue capacità, i tuoi punti di forza o debolezza. È anche un luogo dove ti scontri per la prima volta con il mondo degli adulti, delle regole che sono diverse da quelle dell’ambiente domestico e sciuro. La scuola poi appartiene a quel momento della vita di ciascuno, che è l’infanzia, che ti segna così profondamente e lascia segni indelebili sulla nostra personalità per tutta la vita. La scuola della quale parlo io certamente è una scuola durante la guerra, con tutte le difficoltà che ci sono state, ma devo dire che è stata una vera scuola di vita. Ci trovavamo tra grandi e piccoli, tra bravi e pigri, direi che siamo stati i capostipiti della peer to peer education/educazione tra pari, che va così tanto di moda in questi ultimi anni, e non sapevamo di esserlo. Credo che i bambini di allora, i miei coetanei che hanno vissuto la guerra siano cresciuti in fretta, nostro malgrado, per le circostanze esistenziali che erano sopra di noi, ma credo abbiano proprio capito come quel luogo improvvisato, con sembianze di scuola, era la cosa che ci stava salvando la sanità mentale. Ci dava quella parvenza di normalità e quotidianità della quale avevamo estremamente bisogno. Mi viene da pensare come in questi ultimi due anni, a causa della pandemia, i ragazzi abbiano perso quest’aspetto così fondamentale che fa parte della vita scolastica e che la vera sfida che li aspetta, è proprio quella del recupero del senso antico della scuola che risale al mondo greco: l’ozio nel senso dell’occupazione piacevole del tempo libero! In fondo questo dovrebbe essere il senso della conoscenza.

  • Leggendo le tue pagine si nota come comunque, nonostante la guerra rendesse la vita impossibile, le famiglie cercavano di dare una parvenza di normalità alle giornate. Voi bimbi avevate la piena coscienza di quanto la situazione fuori dalle mura domestica fosse grave?

Assolutamente no. Un bambino ha la misura del tempo, della quotidianità, dei pericoli, delle difficoltà che esulano totalmente dal tempo “normale”. Questo deriva ovviamente dall’impossibilità di comprendere le questioni politiche, dall’impossibilità di darsi una spiegazione ragionevole del perché la sua vita è stata stravolta. Mi ricordo che nei primi mesi di guerra pensavo spesso a mio nonno, che quando facevamo i monelli a casa ci riprendeva dicendo che solo una guerra ci avrebbe insegnato le buone maniere, pensavo che le sue parole ci avessero portato sfortuna, ero quasi arrabbiata con lui e con questi ricordi. Poi più il tempo passava, più la guerra e le difficoltà esistenziali si fecero dure e complesse credo che tutti noi abbiamo metabolizzato forse non tanto la gravità della situazione quanto piuttosto la nostra condizione misera e disperata di una nuova vita che aveva perso senso. Ci fu un periodo in cui nel mio diario avevo smesso di appuntare i miei pensieri per annottare con meticolosa attenzione ciò che sentivo alla radio, ovvero le battaglie, il numero dei morti, il movimento delle truppe. Era forse il mio modo, un mio tentativo di capire cosa stesse succedendo. La cosa tremenda, che penso adesso a distanza di anni è che un bambino ha una grande capacità di adattamento e dunque in breve tempo il fatto di non poter uscire, il fatto di sentire le granate e le detonazioni, le sirene, avere freddo, fame fosse stato accettato come una condizione normale, una nuova vita. La guerra era diventata per noi la condizione di normalità in breve tempo.

 

  • Sul finale ci dici che alla fine chi lascia la sua terra alla fine non appartiene a nessuna. Ci puoi spiegare meglio questo concetto?

 

Ognuno di noi è legato visceralmente al luogo nel quale è nato, e spesso non lo sa. I luoghi che abbiamo vissuto, dove siamo stati falici, dove abbiamo avuto i primi amori, stretto le prime amicizie, fatto le prime esperienze importanti nella nostra vita, entrano dentro di noi e lasciano un segno che è difficile, anzi, impossibile da cancellare. Quando si abbandona un luogo che fa parte del nostro cuore, soprattutto se questo avviene non per scelta ma per necessità e obbligo, si soffre. In una dimensione nuova invece è difficile essere accettati, non essere considerati stranieri, diversi. Quante volte mi è capitato di sentirmi dire “Ma sei straniera, si sente dall’accento?”, ma con un tono di voce che rivelava fastidio, intolleranza, insofferenza nei miei confronti, il pregiudizio! È mentre tu cerchi disperatamente di integrarti, omologarti, essere semplicemente uguale agli altri nel nuovo ambiente nel quale ti trovi a vivere, ti rendi conto allo stesso tempo che il luogo che hai lasciato non è più tuo. Le persone sono cambiate, le loro vite sono andate avanti e tu non hai condiviso la quotidianità con loro, perché sono le piccole cose di ogni giorno che fanno la differenza e che creano un legame tra le persone. Ti trovi così improvvisamente a idealizzare il passato, soffrire nel presente e non riuscire più a trovare un tuo posto nel mondo. La vita comincia così a dividersi inevitabilmente in un prima e un poi, ma il senso dello smarrimento che uno ha nel cuore è difficile da guarire.

 

  • Tu che la guerra l’hai vissuta cosa pensi della frase “La storia la scrivono i vincitori?

 

La storia la scrivono i vincitori e i vinti, perché solo nella coralità, nella molteplicità di voci, esperienze e testimonianze può trovare dimora la verità. Ci sono luci e ombre in ogni periodo storico, in ogni ideologia, in ogni interpretazione dei fatti. Com’è che dicono: La verità sta negli occhi di chi guarda? Ecco allora, bisogna guardare anzi ascoltare diversi punti di vista per potersi almeno avvicinare alla verità dei fatti anche solo per comprenderli fino in fondo. Sono inoltre convita che esistono due tipi di storia. La Storia fatta di date, avvenimenti, quella ufficiale e universalmente riconosciuta, e poi la storia individuale, storia di persone che hanno vissuto una certa esperienza, provato sulla propria pelle i fatti e l’hanno testimoniata. Se la Storia la scrivono in vincitori poco importa, finché ci saranno persone abbastanza intelligenti che andranno sempre più in là, sempre più in profondità e saranno sempre disposte ad ascoltare tutti coloro che hanno qualcosa da testimoniare e da dire.

 

  • Qual è la domanda più frequente che ti vien fatta quando vengono a sapere che sei una “sopravvissuta”?

 

In verità la gente non chiede nulla. Col passare degli anni ho imparato che alla gente non importa. Sarà la malattia del nostro mondo moderno che ci ha abituati ad essere molto concentrati su noi stessi, sui nostri selfie, sui like nei social, su ciò che gli altri pensano di noi. L’egocentrismo non è mai stato così di moda come in questi ultimi anni. Dunque, sentire una storia triste, una storia scomoda, sapere che qualcuno soffre mette a disagio perché sbatte davanti agli occhi un mondo fatto di sofferenza che si cerca di allontanare e dimenticare. Forse potrebbe interessare solo se si potesse spettacolizzare. Quelle poche volte che ho anche solo accennato alla mia storia le persone mi guardavano come se fossi un marziano venuto sulla terra, per poi darmi una pacca sulla spalla e dirmi che beh, dai adesso è finto tutto e stai benone. Credo di aver scritto questo libro anche per ricordare che non dobbiamo dimenticare, non dobbiamo voltare il viso dall’altra parte. Io parlo di fatti accaduti relativamente pochi anni fa, molto vicino a noi. Spero che sia un libro che per quanto possa suonare scomodo, susciti domande sull’identità, sentimenti dell’altro, una riflessione su cosa significa davvero lottare per la vita, quella vera, quella che lascia cicatrici, non quella dietro lo schermo di un telefono.

 

  • Sogni mai la guerra?

Sogno tante cose, sogno frammenti di attimi, di conversazioni, di ricordi. Ma ricordi della guerra mi perseguitano sempre, anche di giorno, quando meno me l’aspetto. La mente ha un sistema perverso di farti ricordare il tuo dolore.

 

  • Cosa si prova quando in qualche modo la guerra finisce?

 

Sicuramente un senso di sollievo, un senso di liberazione, un senso di felicità anche perché non devi più temere ciò che a tutti noi fa più terrore: la morte. Ci sono però delle fasi attraverso le quali poi uno passa, come le famose fasi del dolore di cui tanti psicologi parlano. All’inizio si è presi dall’euforia ma poi si passa ad un profondo senso di paura perché ti rendi conto di avere davanti una vita tutta da ricostruire trovando un modo di andare avanti. Poi subentra il peso del giusto vivere che significa lottare anche per coloro che non ce l’hanno fatta, e poi c’è la sindrome dello stress post traumatico che prima o poi bussa alla porta, come un pegno da pagare per essere vivi. La guerra non finisce mai, il conflitto bellico sì, ma la guerra, quella interiore…beh quella è la parte più dura da combattere, mettere a tacere e superare.

Stai lavorando ad un altro libro? Puoi dirci di che genere?

Sto lavorando ad un sacco di progetti. Mi è stato proposto di creare una sceneggiatura basata sul mio libro dove tutta l’azione si svolgerà nel tunnel che mi ha salvato la vita. Ho scritto poi una serie di fiabe popolari che mi raccontava mio nonno quando ero piccola e che sto arricchendo con una serie di disegni, poi ho in mente una storia sulla maternità che volevo scrivere da tanto tempo… Insomma, sto cercando di continuare a scrivere, ogni giorno un po’. Credo di aver trovato il mio modo di conversare col mondo che mi fa stare bene, e spero sia un sentimento reciproco anche per coloro che poi mi leggeranno.

Ringraziamo Irma per la sua disponibilità e speriamo di averla presto di nuovo ospite delle nostre pagine.

Grazie di cuore a voi, e buona lettura a tutti!

David Usilla

 

 

 

 

Una risposta a “Intervista a Irma Hibert – “La Sopravvissuta” (Battello Stampatore)”

  1. Grazia per questa intervista e per la recensione al libro “La Sopravvissuta”, libro che ho avuto il piacere di leggere, che mi ha lasciato tantissime emozioni….per me è un piccolo capolavoro.

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