ACCABADORA – LA MORTE SARDA Approfondimento di Teresa Breviglieri

ACCABADORA – LA MORTE SARDA Approfondimento di Teresa Breviglieri

Accabadora

La Sardegna è una terra ricca di storia, cultura e credenze popolari. Una su tutte, diventata famosa anche grazie al romanzo di Michela Murgia :  l’Accabadora, ma noi non parleremo del libro ma della figura in sé.

L’ Accabadora , come un fantasma, arriva di notte avvolta in un mantello nero. La sua figura ricorda le illustrazioni stereotipate della morte. Nelle raffigurazioni, la Morte impugna la falce, l’Accabadora ha un “malteddu”, (martello), fatto con un ramo lungo quasi quaranta centimetri e largo venti, il cui manico è nodoso e ricurvo verso l’interno, solitamente  fatto con un ramo di olivastro.

A  conferma dell’esistenza dell’Accabadora segnaliamo che al Museo Etnografico di Luras (in provincia di Sassari), è conservato questo particolare martello rinvenuto pare proprio dal direttore del museo, in una casa sperduta nella campagna.

Secondo la tradizione popolare l’accabadora, era vista come una presenza benevola, poiché portava la morte ai malati terminali devastati dalla sofferenza. Il compito dell’Accabadora era, in sostanza, quello di dare l’eutanasia a chi non ce la faceva più. Donava la morte, non come capita attualmente attraverso una miscela di farmaci, i suoi modi erano, anche perché dettati dal periodo storico, molto più cruenti.

Prima di iniziare il suo “lavoro” veniva tolto dalla stanza qualsiasi immagine sacra o amuleto la cui presenza, secondo l’Accabadora, avrebbe impedito all’anima di staccarsi dal corpo.

Portava alla morte il sofferente, colpendolo sull’osso parietale con il suo bastone con un gran colpo secco, oppure lo soffocava a mani nude tappandoli naso e bocca o appoggiandoli sopra un cuscino.

Ma il percorso di cui questo è l’epilogo, prevedeva una fase precedente in cui si provava il tutto per tutto prima di chiamare l’Accabadora. Ovviamente si trattava di semplici rituali che non avevano nulla di scientifico o medico.

Per tre giorni e tre notti veniva posto sotto il cuscino del morente un piccolo giogo che avrebbe avuto lo scopo di “tornare in vita”, migliorando le sue condizioni. Passati i tre giorni senza risultati era giunto il momento di una specie di confessione chiamata “ammentu”.

Durante l’ammentu i parenti elencavano al morente tutti i peccati commessi quando era stato in salute. Lo scopo sarebbe stato quello di condurlo alla morte con l’animo libero e pentito, ma si racconta che durante questa speciale confessione  alcuni morissero per i sensi di colpa e altri guarissero per timore di finire all’inferno.

L’ultimo rituale da compiere, se i precedenti non davano esito, era quello di avvolgere il malato in un panno di acqua gelata e posto dentro una botte. Teoricamente lo scopo era quello di fare abbassare la febbre, ma spesso era causa dell’insorgere di una broncopolmonite mortale. Se il paziente resisteva a tutto questo senza migliorare la sua condizione, era arrivato il tempo per fare intervenire l’Accabadora.

L’accabadora era considerata una professionista, in quanto offriva una morte rapida e pressoché indolore degna del migliore medico. L’Accabadora interveniva solo quando uno dei parenti, stanco di vedere soffrire il proprio congiunto, la chiamava. Alcune volte era il malato stesso a chiedere il suo intervento.

L’arrivo e il compito dell’Accabadora rispettava una sorte di rituale. Venivano lasciate per lue tutte le porte aperte, lei andava solo e direttamente nella stanza del malato e dopo, essersi accertata dell’assenza di immagini sacre, si procedeva come detto. All’eutanasia, che di fatto era un omicidio, non doveva assistere nessun parente perché avevano già sofferto a sufficienza, e non dovevano soffrire anche nel vederne la fine, in qualche modo forse la donna si tutelava evitando che al suo intervento ci fossero dei testimoni.

La figura dell’Accabadora era quasi venerata come una sacerdotessa che metteva fine al dolore del malato, ma anche della famiglia che lo assisteva. Il compenso per il suo lavoro non era mai in denaro,  veniva ricompensata con i prodotti della terra. La figura dell’Accabadora non è però associata alla morte. La “sacerdotessa” veniva chiamata anche quando serviva una levatrice per parti difficili e a rischio. Lei dava la vita, lei dava la morte.

L’intervento dell’Accabadora più recente, pare accertato, sia avvenuto nel 1952 a Orgosolo, di cui c’è traccia in un verbale dei carabinieri. Nel documento  si dice che i parenti avevano dato pieno consenso alla morte del congiunto. Prima si questo c’è traccia di un altro suo intervento nel 1929 a Luras.

La figura, che almeno ufficialmente, non esiste più ha fatto la sua comparsa, stando ai vari testi della tradizione sarda, quasi millecinquecento anni prima di Cristo e duemila e venti anni dopo siamo ancora qui, a combattere per rendere legale l’eutanasia o dolce morte, con modi più scientifici di quelli usati dalla Femina Accabadora, ma non meno efficaci, perché è giusto che ognuno possa avere garantita una fine dignitosa, sia prima che dopo la nascita di Cristo.

Teresa Breviglieri

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