Intervista a Massimiliano Conte – Adiòs Caracas – I Robin & Son

Intervista a Massimiliano Conte – Adiòs Caracas – I Robin & Son

Massimiliano Conte

 

 

Abbiamo da poco recensito il volume di Massimiliano Conte “Adios Caracas” – I Robin & Son e abbiamo ora la possibilità di scambiare quattro chiacchiere con l’autore.

Ciao Massimiliano, grazie per essere passato a trovarci, possiamo darci del tu?

  • Ma certo! In molte occasioni – e questa è una di quelle – il tu favorisce la confidenzialità… Ti ringrazio.
  • Pensi che la letteratura sia stata un’àncora di salvezza per te nei problemi che hai avuto nella vita?
    • Direi di sì, ma non da sola. Fin da giovane alternavo letteratura e saggistica. Il primo libro che lessi, prestatomi da un compagno di classe, fu a quindici anni: il misconosciuto “Il lastrico dell’inferno” scritto nel 1955 Damon Knight, romanzo di fantascienza del quale non capii nulla e che per un po’ mi fece desistere da altre letture. Fino agli ultimi anni di Liceo che, fortunatamente, mi fecero incontrare i classici della letteratura e della poesia italiana del ‘900, ma anche autori più “popular” come Fruttero e Lucentini, Salvalaggio… Non nascondo, però, che è stata la poesia a venirmi incontro ad una adolescenza ombrosa che si illuminava dall’intensità delle parole di Montale, Ungaretti ai quali affianco, essendo io bilingue, Antonio Machado e Garcia Lorca… Ad ogni modo, insieme alla letteratura l’àncora di cui parli si potenziò con la conoscenza della saggistica allora in voga: Erich Fromm, Herbert Marcuse, e la filosofia. Questo imprinting mi accompagnò una volta deciso di lasciare Caracas per andare a studiare a Roma.
  • Il tuo libro si colloca nel solco del genere di formazione; sei un amante di questo tipo di letture?
    • Ad essere sincero, quando ho scritto Adiòs Caracas l’ho pensato come una sorta di cronaca di una adolescenza migrante, di una storia piccolo borghese di due giovani – i miei genitori – che a fine degli anni ’50, senza alcuna necessità oggettiva (povertà, precarietà nel lavoro etc), decisero di abbandonare le proprie famiglie per tentare la fortuna e una vita più “piena” in quella che all’epoca era considerata una El Dorado: il Venezuela. In questo senso specifico, può essere inteso come un romanzo di formazione che mi ha permesso – ed ecco il vero motivo di questo mio primo lavoro – di lasciare a mio figlio testimonianza di una infanzia difficile che avrebbe inevitabilmente determinato nel bene e nel male il mio essere adulto, uomo e padre. Le circostanze della vita ci hanno fatto vivere purtroppo, da un certo punto in poi, lontani. Visto da una prospettiva più larga, Adiòs Caracas è una excusatio non petita, un auto-da-fè, uno storicizzare un mondo che non esiste più e che ora non genera più nostalgia e dolore, almeno in buona parte. Impossibile sradicare il proprio passato. Per rispondere in maniera indiretta alla tua seconda domanda, non saprei scrivere un romanzo di fantascienza; riesco con modestia e con tutti i limiti dei primi cimenti, a dare voce ad una voce interiore che sa che la “formazione” è per tutto l’arco della vita.
  • Cosa ti ha dato la forza di andare avanti nonostante tante amarezze in quel periodo della tua adolescenza?
    • È una domanda che potrebbe farmi scivolare nella esaltazione autoreferenziale dell’adolescente orfano, “adulto prima del tempo”. Vorrei evitarlo, non amo i vittimismi. Per questo ti rispondo dicendoti che quella che tu hai chiamato forza non è stato altro che l’educazione che mia madre mi ha trasferito e io ho assorbito, in assenza di un padre. Poi l’amicizia di una persona che nel romanzo di chiama Antonio. Nella sostanza, la forza era il sentimento di dover portare a compimento le aspettative che io ritenevo mi avesse inculcato mia madre per rendermi un ragazzo e poi un uomo presente a sé stesso. Un dover essere che ha funzionato per molto tempo fino a quando ci si accorge che una persona ha altre responsabilità, oltre a quella di badare a sé stesso e che la vita è anche altro dalla fatica di affrancarsi da un passato ingombrante.
  • In questa tua opera si tratta lo scottante tema d’attualità della migrazione e dell’identità socio-culturale; pensi si stia facendo il necessario per favorire una sempre maggiore coesione fra popoli e culture, pur nel rispetto delle reciproche identità?
    • No, penso che l’ultima grande capacità dei governi di accettare la migrazione in quanto ibridazione di culture e tradizioni che transitano da una terra ad un’altra abbia retto per qualche decennio fino a dopo la Seconda Guerra Mondiale, per poi entrare in una zona di stallo. Il tema è molto complesso e potrebbe essere oggetto di un’altra intervista. Basti solo pensare – e lo ricordo come un film che da adolescente mi inquietò pur divertendomi – a “Pane e cioccolata”, film di Franco Brusati del 1974 con un Nino Manfredi emigrante che faticherà sette camicie per essere accettato come cameriere nella ricca Svizzera, nel cuore civile e borghese dell’Europa di allora. Voglio dire che già quaranta anni fa il problema dell’integrazione era un problema non risolto. Certo, le grandi emigrazioni nelle Americhe, in particolare in Sudamerica dove ho vissuto, furono funzionali allo sviluppo di quelle culture, di quelle terre. Gli italiani, ad esempio, portarono con sé l’esperienza della manovalanza, dell’agricoltura, della viticultura, della ristorazione ma anche delle competenze nell’arte delle costruzioni. Valse per il Venezuela ma soprattutto per l’Argentina. Qui l’esperimento riuscì, ma parliamo di un’epoca di grande progresso e sviluppo delle economie di quel continente. Ma oggi? Oggi assistiamo a una tragedia diffusa in tutto il globo che induce la povera gente per i tanti motivi di sopravvivenza dalla povertà e dalla sopraffazione a lasciare la propria terra verso luoghi sconosciuti di cui si ha solo una rappresentazione distorta e falsa di un presunto infinito e accogliente benessere europeo o del ricco Occidente. Quindi, no. Non si sta facendo molto per favorire una inevitabile integrazione di persone e di culture diverse. Il tema è che, a mio modesto parere, le logiche del capitalismo globalizzato e il tipo di necessità di cui esso necessita per “funzionare” non è soddisfatto da questo tipo di “nuova” emigrazione, che, purtroppo, è portatrice di giuste e umane istanze di sopravvivenza e non delle tanto decantate competenze professionali richieste per alimentare la macchina del profitto. La stragrande maggioranza delle emigrazioni a cui stiamo assistendo sono destinate ad un’altra precarietà e sfruttamento, a una implicita forma di potenziale schiavitù. Sono francamente pessimista e addolorato, visto che sono stato figlio di emigranti fortunati e io stesso sono stato un immigrato di ritorno con qualche soldo in tasca per pagarmi gli studi in Italia. Oggi l’”altro” è considerato una minaccia e non una opportunità, ma ciò accade solo per una inerzia storica, l’insipienza e il pressapochismo dei governi che in questo momento storico inneggiano all’identità nazionale e alla chiusura dei nostri confini. Ho sentito recentemente un imbecille dire “vendiamo Lampedusa agli africani”. Il dramma è che costui – e sono certo che non è un caso isolato – non ha neanche le categorie morali e cognitive per capire un capolavoro adamantino come “Io capitano” di Matteo Garrone. Questo è il “mondo al contrario”, non quello del generale assurto recentemente alle cronache per il suo libro autofinanziato che ha spopolato tra gli adepti della sostituzione raziale!
  • Quali sono i tuoi generi letterari preferiti?
    • Leggo un po’ di tutto, meno i romanzi storici, ma cerco in quel che leggo, al di là dei generi, le emozioni che scaturiscono da una ricerca di sé, di una verità nascosta, di un riscatto, di un fallimento, di una morte annunciata. Ma non cerco la consolazione. Leggere deve essere una sfida con sé stessi. È una forma di viandanza letteraria.
  • Come è iniziato il tuo percorso verso la scrittura professionale?
    • Come dicevo prima, tutto è iniziato volendo dare senso ad un passato ingombrante che, credevo, mettendolo nero su bianco, mi avrebbe permesso di affrancarmi da esso. In parte è stato così ma il quid che scaturisce da un primo tentativo di scrittura – di certo con i limiti del neofita, per quanto io abbia scritto molto per lavoro e anche ai tempi in cui mi occupavo in università di psicoanalisi -, è la seduzione che proviene dai personaggi che hai descritto nelle tue pagine. Borges da qualche parte della sua immensa opera disse che “…è possibile che tutte le persone che ci circondano non siano altro che fantasmi che in qualsiasi momento possono sparire e con le quali dobbiamo essere buoni approfittando del breve tempo della loro presenza”. Ebbene, un personaggio di un libro, realmente esistito o frutto della fantasia, è un fantasma al quadrato e come tale aleggia sempre nella mente dello scrittore chiedendo cura, attenzione… Non sempre si può essere buoni con tutti, ma certamente nel tempo della scrittura il fantasma ti avviluppa, ti accompagna. Permettimi una affermazione forte: il rapporto di scrittura con questi fantasmi del proprio racconto è di tipo erotico. Uno inizia ma bisogna capire quanto sei in grado di affrontare un “rapporto” così, soprattutto perché prima o poi tutto finirà e la separazione è sempre assai dura…
  • Sei riuscito a fare davvero pace col tuo passato?
    • Ni! Nella mia vita sono passato per ben tre psicoanalisti: il primo, riuscii a farlo addormentare durante una seduta; il secondo, purtroppo è morto anni fa (non per causa mia, sia chiaro); il terzo è vivo e vegeto ma un giorno lo incontrai in studio con un tutore alla spalla: era caduto da un albero e si è salvato per miracolo da una caduta più rovinosa. Forse per questa erranza terapeutica ancora mi arrabatto con le mie nevrosi… Ma Freud, ricordo, ebbe a dire che l’analisi è interminabile. Spero almeno che con la morte si riesca a trovare la pace dello spirito e l’analisi si concluda una volta per tutte.
  • Stai scrivendo un nuovo libro?
    • Già scritto e pubblicato, sempre per i tipi di Robin & Son: “Nessuna voce, è solo il vento”. È la storia di un uomo che, durante il periodo del Covid, riceve una missiva dalla lontana Argentina, di cui è originario perché figlio di migranti, e sparisce misteriosamente raggiungendo i luoghi della sua infanzia. È un uomo in crisi che vuole emendarsi dalle proprie storie di lavoro, amori, paternità, convivenza con una donna. Il suo nome è Manuel Chiti.
  • Che peso hanno avuto i tuoi studi di Psicologia nella tua vita? Come ti hanno influenzato filosofia e politica?
    • Rimasto orfano di genitori a sedici anni, sono stato praticamente allevato “spiritualmente” dal mio professore di ripetizioni di matematica, che era poi un brillante e per certi versi geniale specializzando in Filosofia della Universidad Central del Venezuela, allora un’ottima università con ottimi professori emigrati dall’Europa post bellica. Lui è l’Antonio del mio libro. A latere delle lezioni di matematica, con altri compagni incapaci in questa materia, Antonio provò ad aprirmi l’orizzonte della riflessione filosofica e anche politica. I tempi erano quelli delle teorie della Scuola di Francoforte, dell’hegelismo “di sinistra”, e questo fu il mio imprinting che ancor oggi non mi abbandona, anche se si è molto trasformato. Essendo stato opportunamente dissuaso dallo studiare, per emulazione, Filosofia, ripiegai sulla Psicologia. Mi occupai per anni di psicoanalisi e metodo scientifico, ma questo si innestava nel mio progetto personale di poter lavorare in università. L’abbaglio durò qualche anno ma poi dovetti “riqualificarmi” verso la Psicologia del lavoro che, almeno fino ad oggi, mi ha consentito di avere un lavoro stabile e ben remunerato che mi porterà, spero presto, verso la pensione. Il peso della Psicologia? Osho afferma che, se qualcuno ti chiede “chi sei?” e tu rispondi “sono un ingegnere” stai dando una risposta errata, perché l’ingegnere è ciò che fai, non ciò che sei. Per molti anni ho creduto di essere uno Psicologo, e alla fine mi sono chiuso in una funzione, in un ruolo che ho svolto come meglio ho potuto trascurando però altre importanti parti di me. Bisogna saper uscire da sé stessi e guardarsi come in volo per poter trovare una integrazione del proprio sé più interiore con i ruoli che la vita sociale ti impone di “agire”. Non è facile trovare il punto di equilibrio, ma lo sforzo vale una vita.
  • Cosa diresti a chi soffre per la lontananza dalla sua terra d’origine?
    • Stai chiudendo questa intervista con la domanda più impegnativa del nostro incontro. E immagino che tu stia pensando non solo ai migranti ma anche a coloro che, a causa delle circostanze più varie, si trovano lontano dai propri affetti e luoghi di origine. Che dire… Posso parlare solo di me e della mia esperienza – non ho ricette da vendere – proprio per evitare di “psicologizzare” una condizione esistenziale che può essere di estrema durezza per una persona. Io ho vissuto il “nostos”, il ritorno alle origini della mia infanzia provando a estrarre da questa esperienza il meglio di quella eredità emotiva ed esperienziale, relativizzando i danni ricevuti e perdonando chi doveva essere perdonato, compreso me stesso. Tuttavia, male farebbe a chiunque sostare a lungo in quella nostalgia, in quelle zone non sempre luminose dell’anima. Per questo, bisogna armarsi di coraggio per accettare lo “sradicamento” dalla propria terra d’origine, dare spazio a una forma sana di speranza (che è sempre una forma di illusione) e trasformare questa capacità di tollerare il dolore della separazione in una nuova percezione di sé, che dia coscienza e valorizzi una nuova identità: per me è stata quella del Viandante. Il passaggio lo descrive bene e definitivamente Antonio Machado, che ho citato prima: “Mai cercai la gloria. Viandante, sono le tue orme il sentiero e niente più; viandante, non esiste il sentiero, il sentiero si fa camminando. Camminando si fa il sentiero e girando indietro lo sguardo si vede il sentiero che mai più si tornerà a calpestare”. Lo so, è un passaggio che può essere di una durezza infinita, ma che può, credo, permetterti di dare un qualche senso ad ogni momento della tua vita, aprendoti a tutti coloro che incontri, a tutto ciò che ti circonda, con il rispetto che si dovrebbe avere verso ciò che ti è stato dato in affidamento e non ti appartiene.

 

Grazie mille  a Massimiliano Conte per la disponibilità, arrivederci a presto sulle pagine de I gufi narranti

Matteo Melis

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