Intervista a Carmen Nolasco – “La geometria del ragno” (Les Flaneurs Edizioni) 

Intervista a Carmen Nolasco – “La geometria del ragno” (Les Flaneurs Edizioni) 

Carmen Nolasco

Abbiamo da poco recensito “La geometria del ragno” (Les Flaneurs Edizioni) di Carmen Nolasco e abbiamo ora la possibilità di scambiare con lei quattro chiacchiere per conoscere meglio lei ed il suo nuovo romanzo

 

Buongiorno Carmen, è un piacere averti ospite sulle nostre pagine.

Mi permetto, se sei d’accordo, di darti del tu. Partiamo con le domande:

  • Essendo la prima volta che ti recensiamo e che di conseguenza ti intervistiamo, ci piacerebbe innanzitutto conoscerti meglio, sapere chi è Carmen Nolasco donna prima che conoscerla come autrice. Ci racconti qualcosa di te?

Buongiorno, è un piacere per me essere ospite sulle vostre pagine. Che dirvi di me come donna? Mi piace mangiare bene, leggere tanto, viaggiare di più. Amo il vino rosso e corposo, i dolci e poi la musica, la pittura, la scultura e tutta l’arte in genere.

Sono madre di due figli adulti e ho svolto un lavoro manageriale per oltre quarant’anni presso un’importante azienda nazionale. Mi sono laureata in sociologia ai tempi in cui la laurea era solo quinquennale e ho studiato con una passione smisurata perché ho una curiosità vivace verso tutto ciò che non conosco.

Dimenticavo: sono innamorata di una gatta che vive da anni con la mia famiglia.

  • Questo mi pare sia il quinto romanzo che pubblichi con Les Flaneurs Edizioni, si può dire quindi che quello tra te e la casa editrice ci sia un sodalizio davvero molto stretto ed intenso. Cosa hai trovato in questa casa editrice tanto da decidere di continuare a pubblicare i tuoi libri con loro?

Sono diversi i motivi per cui sono restata con Les Flaneurs. Intanto perché l’editore, non so proprio come faccia, riesce a coltivare i rapporti con tutti gli autori e spinge questi ultimi a fare squadra. Nasce in questo modo una dialettica spontanea, una reciprocità di intenti tra autori che si leggono a vicenda e si sostengono anche nel mondo delle presentazioni. Per la mia esperienza professionale, il mio editore è un buon leader e ha messo su uno staff competente che lo coadiuva molto bene nell’attività. Ha anche significativi talenti manageriali altrimenti non si spiegherebbero i successi che continua a ottenere. Uno sguardo lungimirante e diversificato, la cura del prodotto libro sia dal punto di vista qualitativo che estetico, il dialogo continuo con la squadra degli autori sono caratteristiche importanti.

  • Come nascono i tuoi romanzi? E questo in particolare?

Tutti i miei romanzi nascono da una suggestione che può essere indotta dalla lettura di un libro, la visione di un film, un fatto di cronaca, una frase detta da qualcuno. Tutto, virtualmente, è in grado di produrre suggestioni e dare il via al processo creativo. Le storie nascono così, senza un vero progetto, inizio a scrivere e viene fuori un personaggio, poi l’altro, poi la situazione, e il racconto si snoda spontaneo spesso anche allontanandosi dalla suggestione iniziale. Questo romanzo, in particolare, è nato dalla forte empatia che ho provato per la mamma di Denise Pipitone, la bambina scomparsa. La vicenda mi ha turbata moltissimo come donna, come genitore, come persona in senso lato. Ho sempre desiderato che vicende del genere abbiano una soluzione positiva e ho ammirato la forza di questa madre che non si è mai arresa. Forse ciascuno di noi, in misura diversa, ha paura di perdere chi ama. La paura della perdita, lo scrivo nel mio romanzo, per bocca di Talin, un personaggio non protagonista, “è una malattia, un brivido di segreta infezione che si leva dagli abissi dell’anima e attecchisce, prende piede in ogni recondito spazio fino a straziarti. Bisogna stare attenti a non farsi infettare”.

  • Alla fine la quasi totalità di questo romanzo è un lungo monologo in cui Anush Mariani si racconta, racconta la sua storia in un continuo andirivieni tra presente e passato, regalando al lettore un caleidoscopio di emozioni. Perché hai scelto questo espediente narrativo?

Mi hanno chiesto spesso perché i miei romanzi, e non solo questo, siano strutturati su due o più livelli temporali.  A dire il vero non lo so nemmeno io, perché non è una scelta tattica, non è una strategia narrativa che adotto a monte. Così come avviene per lo snodarsi della trama, anche lo stile narrativo viene fuori da sé. Ritengo, tuttavia, che sia il frutto delle mie molte letture e dunque del mio gusto in qualità di fruitrice di storie. Ho come la sensazione che l’intersecarsi del tempo narrato con il tempo della narrazione produca in me più suspence.  Nel momento di maggiore apice emotivo, procrastinare l’evolversi degli eventi, magari con l’espediente del flashback, lascia in sospeso il lettore e cresce la voglia di sapere. Inoltre, c’è il mio desiderio di lettrice, e di conseguenza anche di scrittrice, di una scrittura non troppo piatta del tipo “mi alzo, mangio e poi vado a dormire” in sequenza ordinata.  Quando leggo non amo la pappa pronta, la troppa linearità; mi piace che l’autore mi induca a spingere l’immaginazione e a reggere anche un poco di confusione perché siano conferiti dinamismo e imprevedibilità alla storia.

  • C’è nel romanzo un forte richiamo a sapori, odori, sensazioni che riportano inevitabilmente con l’immaginazione al Medioriente, alle radici egiziane di Anush. Che rapporto hai tu con questa parte di mondo?

Questo romanzo è dedicato ai miei genitori che sono stati italiani in Egitto per un ventennio fino a quando, con l’avvento di Nasser e del nazionalismo, furono persuasi, insieme a molti altri europei, a rientrare nei paesi di origine. Gli italiani in Egitto hanno vissuto all’interno delle loro comunità europee conservando le proprie tradizioni culturali e religiose. Tuttavia è stato molto facile farsi contaminare dalla speziata e affascinante cucina locale. I riferimenti continui al cibo e alle spezie di Alessandria d’Egitto, nel libro, così come ai luoghi, sono il risultato dei racconti che nel tempo i miei genitori mi hanno fatto. Loro conservano ancora una sorta di nostalgia per gli anni in cui hanno vissuto in una città cosmopolita come Alessandria, dove il fermento culturale era grande e il contributo che gli intellettuali e i tecnici italiani (ingegneri, medici, architetti) hanno dato al processo di modernizzazione della città è stato decisivo.

  • Credo che oggi si legga sempre troppo meno e soprattutto si fatichi a far emergere i veri talenti. Tu che consiglio daresti a chi volesse decidere di provare a percorrere la strada della scrittura?

Due soli consigli a chi vuole provare la strada della scrittura. Il primo è leggere. Leggere moltissimo e spaziare tra i generi. Il secondo è scrivere, scrivere con costanza.

Normalmente le due cose sono strettamente connesse: non conosco uno scrittore talentuoso che non sia anche un grande lettore.

Quando decidi di scrivere un romanzo hai già la storia ben chiara in testa oppure preferisci partire da una base e lasciare che sia la storia ad evolversi nel corso della scrittura?

Non ho mai una storia in testa quando comincio a scrivere. Mi muovo in modo nebuloso, come ho avuto modo di dire, sulla scorta di una suggestione. La storia si scrive da sola, è un processo incredibile che mi entusiasma: non so mai cosa succederà nel capitolo successivo; a volte i personaggi mi sorprendono, sono anarchici, fanno quello che vogliono e mi tocca ripescarli e riportarli all’interno di un percorso. In altri casi li lascio andare e mi conducono loro verso un’evoluzione che non avevo nemmeno lontanamente ipotizzato.

  • C’è stata una parte della storia più difficile da raccontare?

Le parti più difficili sono quelle introspettive. Devo calarmi nell’animo del personaggio e fingere che sia successo a me. Non so se è difficile in senso letterale, perché sono convinta che nulla sia davvero difficile nella scrittura. Ogni sosta introspettiva è la metafora di qualcos’altro che è già dentro di me, di emozioni che mi appartengono e che trovano il modo di cambiare il segno e tradursi su carta in forma diversa. Più che una parte difficile direi una parte impegnativa. Nel romanzo è stato impegnativo, ad esempio, raccontare il dolore dell’assenza, l’orrore della sparizione.

È inevitabile chiederti se sei già al lavoro su qualche nuovo progetto letterario, se c’è qualcosa che già bolle in pentola. Ci sono news in questo senso?

Ho già consegnato un nuovo romanzo all’editore e sono in procinto di finirne un altro a cui sto lavorando da quasi un anno.

Grazie mille a Carmen Nolasco per essere stata nostra graditissima ospite e speriamo di riaverla molto presto qui sulle nostre pagine

 

David Usilla

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