It a confronto tra letteratura, TV e cinema. I Perdenti contro Pennywise.

It a confronto tra letteratura, Tv e cinema.

In un tranquillo e piovoso pomeriggio d’autunno del 1957, a Derry, nel Maine, Bill Denbrough è costretto a letto dall’influenza, ma il fratello George vuole uscire a tutti i costi per far beccheggiare la sua barchetta di carta lungo l’asfalto gravido di pioggia. George non sa che cosa vedrà occhieggiare da un tombino quando la sua piccola imbarcazione ci cadrà e non sa nemmeno che il pagliaccio, presentatosi come Pennywise, che lo attirerà con la falsa promessa di restituirgliela, sarà anche l’ultima cosa che vedrà.

Bill, a un anno dalla scomparsa del fratello, aiutato da una compagnia di amici solidissima, dichiara guerra alla creatura misteriosa, che decidono di chiamare It. Un essere incomprensibile, che si presenta come un clown per attirare l’attenzione dei bambini, ma che pare poter assumere la forma delle loro paure per aggredirli, impedirgli di scappare e divorarli. Gli omicidi intanto si susseguono e a farne le spese sono quasi sempre ragazzi e ragazze molto giovani. Anche dopo ventotto anni dallo scontro che Bill e i suoi amici, i Perdenti, ingaggiano con It, riuscendo a salvarsi, l’elenco di efferatezze non accenna a fermarsi. E’ per questo che Mike Hanlon, uno dei Perdenti, decide di riunire la vecchia compagnia, col tempo persasi di vista, per combattere un’ultima volta questa orrenda e terrificante minaccia e farla tacere per sempre.

Quando Stephen King completa It è giunto al suo tredicesimo romanzo, escludendo le raccolte di racconti e i libri pubblicati con lo pseudonimo di Richard Bachman. Milleduecentotrentotto pagine, scritte tra il 1981 e il 1985. Un’opera imponente e al contempo un manifesto generazionale. Un’Odissea, sviluppata su archi temporali considerevoli, che a suo modo espande tematiche già toccate in precedenza da King, con una completezza e un’esaustività che rendono libri come Cujo (1981) infinitamente più semplici e immediati nelle dimensioni e nei contenuti. It racchiude tutto l’immaginario del suo autore: racconto di formazione, horror, fantastico, thriller, fantascienza. Come consueto, ambienta la vicenda nel suo stato natale, il Maine, che con la sua narrativa ha contribuito, per forza di cose, a rendere così misterioso e spaventoso. Derry, appare una cittadina come le altre, ma per i Perdenti non c’è nulla di normale in un susseguirsi esasperante di decessi e nelle apparizioni cangianti di un mostro. Il motivo del nome Perdenti infatti è duplice: nella realtà narrativa li identifica per come vengono percepiti da chi li circonda cioè come deboli, sfigati ed inutili, ma per chi scrive la consapevolezza dei loro limiti rimane, ma ha il valore della rivalsa. Sono infatti proprio i presunti Perdenti, gli sfigati, i discriminati, a resistere agli infidi agguati di It e a resistergli. Mike Hanlon afroamericano, Bill Denbrough balbuziente, Stan Uris ebreo, Ben Hanscom obeso in maniera inquantificabile, Beverly Marsh ragazza maschiaccio, Rich Tozier folle ed incontrollabile, Eddie Kaspbrak ipocondriaco già a undici anni. A permettergli di tenere testa alla minaccia è un fortissimo senso di unione, cameratismo e altruismo. Un legame così saldo che li difende anche dai bulli Henry Bowers, Belch Huggins, Patrick Hockstetter e Victor Criss; e sta a vedere che tra It e i bulli la connessione non è casuale.

Qui entra in gioco una tematica assoluta del mondo di Stephen King, cioè l’incarnazione del male. Se il pagliaccio Pennywise non si sa da dove venga di preciso e può essere visto solo dalle sue prede, la sua presenza, la sua aura malvagia, può insidiarsi in chiunque lui voglia, con lo scopo di adempiere il suo piano. Come posseduti, sembra che i cittadini di Derry conoscano questo effetto sulla loro psiche e sui loro corpi da moltissimo tempo, come viene riportato negli episodi di violenza che ne contraddistinguono la storia. E come cacciati in una nube di lobotomia, i suoi abitanti e gli Stati Uniti stessi abbandonano i loro destini nelle mani del mostro che lentamente, ciclicamente fa’ sparire qualcuno. Non c’è forse nascosta sotto una metafora crudele e annichilente sul controllo del sistema sulla società americana? Il racconto si fa’ critico e gelido in molti punti, anche nell’ambito familiare, realtà che King ha vissuto da vicino in maniera negativa, a causa della situazione problematica e della conseguente scomparsa del padre. Di frequente i genitori dei Perdenti sono insensibili, squilibrati, violenti, ossessivi e possessivi. Nel caso di Eddie Kaspbrak è ad esempio imputabile alla madre la sua ipocondria, che lo educa fin da piccolo a curare ogni suo male anche quando è sanissimo. Lo protegge ostentatamente da pericoli che non esistono e lo priva delle libertà che un ragazzino dovrebbe avere. Il suo emblema è infatti un inalatore per un’asma inesistente, che porta sempre con se’ ed usa in continuazione. Alvin Marsh, padre di Beverly, costituisce di sicuro la punta più spaventosa ed irrazionale dei nuclei familiari. Rappresentazione simbolica del genitore in cui la premura e la violenza si incontrano generando sentimenti cupi, ambigui e terrificanti. Bill Denbrough, successivamente alla morte di George, diventa quasi invisibile in casa (condizione non dissimile da quella di Gordie Lachance, quando perde il fratello Denny, nel racconto dello stesso King Stand By Me del 1982), ma è animato da una cieca rabbia per vendicarlo. Leroy Hanlon, all’interno della storia, nutre al contrario uno dei rapporti più positivi nei confronti del figlio Mike. L’educazione che gli impone è comunque rigida e totalmente responsabilizzante, dato che fin da piccolo lo mette subito a lavorare la terra. Con la famiglia Hanlon King accenna anche una critica al razzismo a causa dello scontro verbale e fisico con “Butch” Bowers (il papà del bullo Henry). “Butch” è un razzista deviato, un genitore estremamente irresponsabile e una personalità incontrollabile, particolari che si riversano inevitabilmente sul figlio. Inizia infatti una guerra generazionale dove sono coinvolti sia loro che i ragazzi e che permette allo scrittore di effettuare un’aspra accusa antirazzista e antimilitarista in uno dei momenti più forti e sentiti del libro. It può essere considerata tranquillamente un’opera politica che vede contrapposti due schieramenti simili ma diversi. Si potrebbe dire una guerra tra poveri, tra persone ai limiti della società ma distinte, se non sempre da educazioni differenti, da visioni etiche totalmente opposte. L’impostazione malevola, distruttiva e insana, di Henry Bowers e dei suoi soci che bullizzano i ragazzi più piccoli, ammazzano animali (soprattutto nel caso dell’inquietante Patrick Hockstetter), girano armati di coltello, terrorizzano anche gli adulti; quella ribelle ma incredibilmente matura dei Perdenti, che non solo si stringono in un legame fatto di rispetto, amore e totale fiducia, ma vogliono anche salvare la loro città. Un senso civico e un attestato di coraggio che li presenta come dei piccoli eroi.

Questo mette in luce una peculiarità fondamentale non solo di questo romanzo, ma di parecchia narrativa e cinematografia degli anni ’80, cioè l’ottimismo. Per quanto It possa risultare (com’è tipico di King) una storia drammatica, con un finale ancora più triste e malinconico, è permeata di questo ottimismo che vede come ancora di salvezza il collettivo, che in questo caso si traduce in un contatto fisico forte che non esclude anche un approccio sessuale. La domanda a questo punto è: It può essere considerato ancora attuale? Si e no. In realtà potrebbe quasi essere considerato profetico. Perchè se in ventotto anni i personaggi compiono il passaggio dall’adolescenza all’età adulta, disperdendosi e non potendo contare più sulla loro unione, allo stesso modo si può dire che da un punto di vista culturale dopo gli anni ’80 si è andato a perdere molto quel senso di fratellanza e solidarietà. Mancanza che si è riversata fino ad oggi sotto forma artistica anche nel cinema , basti pensare a un film simbolo della crepa anni ’90 – 2000, Matrix, che narra di un futuro in un mondo artificiale, digitale, dove gli esseri umani equivalgono a un segnale elettromagnetico, ad un pixel, creato da una macchina che ha sovvertito e incatenato il genere umano. Questa è un’altra storia, ma è sufficiente per far capire quanto It, nella sua esaltazione della giovane età e all’accusa a quella adulta, che azzera l’immaginazione e il coraggio, possa essere visto come precursore di un nostro impoverimento culturale e sociale. Come fanno infatti i Perdenti nel 1986 a riaffrontare It per distruggerlo per sempre? Si riuniscono cercando di rievocare quel vecchio legame, seguendo pari passo la strada e le mosse che li fecero sopravvivere nel 1958, anche se essendo invecchiati, per qualcuno lo spirito non è più quello di una volta e perciò purtroppo si lamenteranno vittime. Questa dicotomia comunque ci regala uno dei passaggi più emozionanti del libro nel finale, quando Bill, adulto, rimonta in sella a Silver (la bici che ha cavalcato da bambino) e percorre una lunga discesa in mezzo al traffico, mettendolo di fronte ad una scelta: non faccio la discesa perchè sono cresciuto e consapevole che potrei ammazzarmi, o la faccio perchè voglio tornare ad essere un bambino incosciente? La risposta la sappiamo tutti e in questa risiede l’essenza di It. Il superamento delle paure, la voglia di andare in contro al nemico, come solo un bambino farebbe, senza pensarci. Credere al male, ai mostri e allo stesso tempo pensare di poterli battere, proprio come Bill Denbrough che ha sconfitto il diavolo due volte, come dicono i capitoli stessi del libro. D’altronde è nell’eroe per eccellenza che sembra riconoscersi King, che guarda a caso fa’ diventare uno scrittore. Un romanzo che Stephen ha scritto con dovizia di particolari, incasellando una serie di presentazioni che si avvalgono di continue digressioni temporali che spiegano vita, morte e miracoli di ogni personaggio. Una completezza descrittiva che, potrebbe risultare eccessiva, ma è sempre coinvolgente ed interessante. La frequenza con cui le azioni vengono dissezionate e analizzate nei dettagli è impressionante, così come la costruzione storica di Derry, che rivive nelle documentazioni di Mike Hanlon, utili a capire l’origine di Pennywise. Sequenze dedicate ad ogni membro del clan dei Perdenti, che toccano il grottesco, lambiscono i drammi familiari, talvolta con tenerezza ne mettono in luce pregi e difetti e a tratti divertono.

Copertina della versione in DVD dell’adattamento televisivo di It. Due episodi dal 1990 diretti da Tommy Lee Wallace.

Nel tracciare le abitudini dei bulli invece King getta una luce che farebbe inorridire più di un perbenista, e così si capisce come mai entrambi gli adattamenti visivi siano stati così edulcorati. Poi c’è la suspense. Chili di suspense. Quintali di scenari e visioni orrorifiche, pregne di un sentimento classico che non può non rifarsi agli anni ’50, alle sue interpretazioni extratterestri, ai suoi mostri mitologici (licantropi, mummie ecc..), ma anche al cinema più vicino ai suoi tempi (viene citato spesso Alien e se ne capta l’influenza). Un universo quello del cinema a partire dagli anni ’80 in avanti che King ha creato, attraverso la mente e le braccia di registi che ne hanno preso i libri e li hanno trasposti, o vi si sono semplicemente ispirati. John Carpenter, Brian De Palma, Stanley Kubrick, David Cronenberg e la lista è lunghissima perchè di King sul grande schermo quasi tutto è stato portato, anche It. Il primo tentativo è stato di Tommy Lee Wallace (uno che con Carpenter ha lavorato diverse volte), che nel 1990 presenta la sua interpretazione di It, in due puntate studiate per la televisione, della durata complessiva di circa tre ore. Il risultato ha una buona fedeltà nei confronti del libro, anche se è stato adoperato qualche cambiamento nella trama e soprattutto il finale è stato riaggiustato per risultare più digeribile dal pubblico, puntando magari anche su quello più giovane. I difetti comunque non sono pochi. Sicuramente i mezzi utilizzati per un prodotto televisivo non sono sufficienti per realizzare un’opera visivamente ineccepibile. Infatti gli effetti speciali sono rivedibili e a tratti grossolani; mentre la recitazione, fatta eccezione per la buona prova di Tim Curry nei panni di It, non è certo da ricordare, anche se qualche personaggio è stato trattato bene almeno fisicamente. Una prova complessivamente acerba e limitata quella di Wallace, che regala qualche buono spunto fedele al romanzo, su tutti il ritorno a casa di Beverly, attesa da un padrone di casa inaspettato e orrido.

Alcuni momenti di It (1990). Qui Beverly Marsh mostra invano al padre Alvin (Frank C. Turner) il sangue fuoriuscito dal lavandino. Lui non può vederlo.
Georgie (Tony Dakota) nella glaciale scena del tombino.
I Perdenti come erano visti negli anni ’90, prima dell’ingresso di Mike Hanlon. Da sinistra Richie Tozier (un giovanissimo Seth Green), Ben Hanscom (Brandon Crane), Eddie Kaspbrak (Adam Faraizl), Beverly Marsh (Emily Perkins), Stan Uris (Ben Heller) e Bill Denbrough (Jonathan Brandis).
I Perdenti tornano a Derry dopo ventotto anni per cacciare It. Da sinistra Bill Denbrough (Richard Thomas), Beverly Marsh (Annette O’Toole), Richie Tozier (Harry Anderson), Eddie Kaspbrak (Dennis Christopher) e Ben Hanscom (John Ritter).
Infine Tim Curry nella sua iconica performance di It.

E’ invece solo del 2017 il primo vero ingresso nelle grandi sale di It. Stavolta è il regista argentino Andrès Muschietti a prendere in mano il soggetto e lo fa’ anche furbescamente, cavalcando l’onda di un rinnovato entusiasmo per la cultura pop degli anni ’80 (vedi la serie di Netflix Stranger Things ad esempio). La sua storia infatti è completamente traslata nel tempo. I Perdenti ci sono ma non abitano più gli anni ’50, bensì gli anni ’80 e ciò che gli succederà da grandi avverrà pressochè ai giorni nostri, in un seguito che è proprio ora in fase di lavorazione. Nonostante la differenza temporale la narrazione si adatta bene contando anche sul fatto che le due decadi nella cultura popolare hanno già comunicato con successo (vedi Ritorno Al Futuro). La recitazione qui è stata maggiormente curata, anche la scelta degli interpreti sembra più oculata e gli effetti visivi, complici anche i progressi fatti con il digitale, sono di tutt’altra fattura. Bene anche il nuovo Pennywise, che vede un Bill Skarsgård artefice di un’ottima immedesimazione, più sorniona, luciferina e lovecraftiana di quella di Curry. Complessivamente un prodotto notevolmente migliore di quello di Wallace, ma in cui non mancano pesanti e a tratti incomprensibili riadattamenti e stravolgimenti della trama. Viene da chiedersi se sia così difficile per un regista riprendere più fedelmente un racconto così straordinario. Sicuramente, vuoi per la lunghezza, vuoi per la complessità di certi passaggi, It non è un film semplice da girare. Anche vero che con i mezzi di oggi e con un talento registico di un certo livello si potrebbe fare di più. Christopher Nolan stai ascoltando? Credo sarebbe un lavoro giusto per te. La grande difficoltà nel riprendere con esattezza il tomo in questione è l’infinita quantità di ragionamenti e pensieri dei suoi personaggi. Quelli o alcuni di essi dovrebbero essere esclusi per forza di cose. Rimango comunque fermamente convinto della sua perfetta adesione al mondo del cinema. Come poter girare un film così senza voler inserire la scena della visione di Hanlon e Tozier che vedono It, prima che diventi Pennywise, discendere dal cielo per atterrare sulla Terra? Un momento semplicemente terrificante e unico. O ancora, come non voler inscenare il momento della prova del fumo? Insomma, permane l’impressione che al cinema ancora poco sia stato fatto nei confronti di questo lavoro monumentale.

I Perdenti nel 2017. Stan Uris (Wyatt Oleff), Richie Tozier (Finn Wolfhard), Mike Hanlon (Chosen Jacobs), Bill Denbrough (Jaeden Lieberher), Beverly Marsh (Sophia Lillis) e Ben Hanscom (Jeremy Ray Taylor).
Bill Skarsgård è il nuovo Pennywise. Inquietante.

Ma almeno quel senso di unione è stato ben trasmesso e spero che serva di insegnamento ai giovani di oggi. Che stiano uniti e che rimangano giovani, perchè capiscano che la giovinezza è un mondo fatto di sogni e di infinita bellezza, un po’ come quella di Berverly Marsh, il cui personaggio è stato ben ripreso da Sophia Lillis. Simbolo di emancipazione femminile (forgiata e adattata al racconto negli anni di Sigourney Weaver/ Ellen Ripley e Linda Hamilton/ Sarah Connor, ottime maestre). Ragazza descritta come stupenda e ribelle, di cui tutti i Perdenti sono incondizionatamente innamorati, anche se lei ama perdutamente Bill. Dotata di una forza che le permette di surclassare i suoi amici nelle prove più da maschio, come il tiro con la fionda; nel film risulta anche più matura, sicura e consapevole degli altri. Sicurezza che però la abbandona quando deve vedersela col padre. Paura che la condizionerà per tutta la vita, anche quando sposerà il folle Tom Rogan, che la tratterà peggio del padre. King punta il dito contro il maschilismo, contro chi se ne approfitta, e ci consegna il ritratto di una ragazzina fortissima ma che non riesce a scrollarsi di dosso l’ombra di una figura paterna aberrante; in maniera non dissimile Eddie Kasprak non riesce ad abbandonare l’idea di vivere con la madre dato che sposa una donna che le assomiglia in tutto e per tutto. Di fatto la crescita anestetizza tutti i Perdenti, privandoli di quel grido di rivolta che avevano da piccoli, chi più chi meno. Mike rimane a Derry e conduce una vita modesta, ma tutti gli altri se ne vanno e curiosamente diventano tutti ricchi, e ancora più curiosamente nessuno di loro riesce ad avere figli nonostante ci abbiano provato. It intanto ritorna a dormire, aspettando il momento del ritorno alla grande caccia. Tutto ha il sentore di un patto col diavolo. E trascorsi ventotto anni, approfittando delle sue vittime ormai pigre e flaccide, punta a sorprenderle per divorarle, finalmente. Ma, anche se non sembra, c’è qualcuno che continua a coltivare il vecchio spirito. Bill Denbrough, il ragazzino che riesce a montare e portare una bici molto più grande di lui, il ragazzino che ha già battuto il bestione una volta e che non è ancora riuscito a vendicare completamente la morte di Georgie, il piccolo Georgie con la mantellina gialla e gli stivali anti pioggia. Una piccola vita innocente spezzata. Quel ragazzino vive ancora. Sarà grazie alla determinazione di Mike e alla perseveranza di Bill, che Ben Hanscom lascerà i suoi troppi bicchieri di alcool, che Beverly Marsh riuscirà a fuggire finalmente per sempre dal marito psicopatico, che Eddie abbandoni la moglie/ madre e che Richie Tozier la smetta di fare lo scemo in TV. In teoria sarebbe di tutto questo che dovrebbe parlarci il prossimo film. La quadratura del cerchio. Una nuova possibilità per rivelare in immagini questa narrazione mitologica, tenebrosa, totalizzante e totale. Ce la faranno a portarci più vicini a questo strepitoso fenomeno editoriale ancora oggi capace di spaventare ed ammaliare?

Zanini Marco

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