Bohemian Rhapsody – Rami Malek è immenso, ma il contorno dice poco.

Bohemian Rhapsody

Anno: 2018

Titolo originale: Bohemian Rhapsody

Genere: musicale, biografico

Regia: Bryan Singer, Dexter Fletcher (non accreditato)

Produttore: Jim Beach, Robert De Niro, Graham King, Brian May, Peter Oberth, Bryan Singer, Roger Taylor

Cast: Rami Malek, Lucy Boynton, Gwilym Lee, Ben Hardy, Joseph Mazzello, Aidan Gillen, Tom Hollander, Allen Leech, Mike Myers, Aaron McCusker

Si sveglia tossendo, si prepara e sale in macchina. L’atmosfera nell’aria è già elettrizzante. Si stanno ultimando i preparativi per il Live Aid del 1985 e Freddie Mercury, canotta bianca, jeans, scarpe da ginnastica, capello corto e baffo prepotente, saltella verso il sipario che si apre su un oceano di persone. Un grande flashback interrompe bruscamente l’idillio. Farrokh Bulsara nel 1970 scarica i bagagli all’Aeroporto di Londra – Heathrow, ma nel tempo libero scrive canzoni. Una sera va in un locale e vede esibirsi gli Smile, dove figurano Brian May alla chitarra e Roger Taylor alla batteria. Finito il concerto il cantante li lascia per un progetto più ambizioso. Farrokh non ci pensa due volte e si propone agli Smile come nuovo solista che, subito convinti dal suo talento canoro, lo accettano. Il gruppo cambia nome diventando i Queen, così come il nuovo cantante che da Farrokh passa a Freddie e da Bulsara a Mercury.

Bohemian Rhapsody rientra in quella cerchia di film con alle spalle gestazioni travagliate. Il progetto viene annunciato da Brian May nel 2010 e vede avvicendarsi nel ruolo di Mercury , prima Sasha Baron Cohen (consensualmente allontanatosi per divergenze), poi Ben Whishaw (il nuovo Q di 007), che abbandona per recitare in Spectre, sgomberando così il campo a Rami Malek. La regia in assoluto però subisce i cambiamenti più singolari: ad essere interpellato per primo è Dexter Fletcher, che però si defila nel 2014 per lasciare l’incombenza a Bryan Singer; nel 2017 la 20th Century Fox lo licenzia richiamando Fletcher per concludere le riprese, ma unico regista accreditato rimane Singer. Nel frattempo la sceneggiatura passa da una persona all’altra. Un processo così tortuoso avrà condizionato la resa finale? A giudicare dal botteghino no, visto che Bohemian Rhapsody è già il film biografico di maggior successo nella storia del cinema. Un entusiasmo simile da parte del pubblico fa’ capire che i Queen sono ancora oggi saldamente ben piantati nell’immaginario collettivo e che per moltissime persone un film che ne racconti le gesta rappresenta un appuntamento da non perdere. In assoluto poi la sublimazione del genio Mercury e la malattia che ce lo ha tristemente strappato, non possono non suscitare una notevole empatia.

Gwilym Lee (Brian May), Rami Malek (Freddie Mercury) e Ben Hardy (Roger Taylor).

Tuttavia stupisce che davanti a tanto clamore, saltato l’avvio entusiasmante, si debba assistere ad un copione privo di sorprese e variazioni rispetto ai classici racconti biografici musicali. Per come viene descritto: il gruppo britannico raggiunge il successo nel giro di un anno quando, ottenuti i soldi per finanziarsi il disco di debutto, viene notato da un agente della EMI che lo mette immediatamente sotto contratto e lo spedisce, prima in TV e poi in tour. Personalmente apprezzo i Queen, non ne sono un fine conoscitore o un fan sfegatato, perciò questo non mi permette di conoscerne esattamente la storia. C’è però da dire che se le cose sono andate davvero così, l’ascesa dei Queen è di quelle meno interessanti da raccontare in assoluto. Certo, l’obbiettivo di Bohemian Rhapsody, in quanto “foto ricordo” di uno dei gruppi rock – pop più importanti di sempre, è di omaggiare ed esaltare i Queen. Allo stesso modo è però evidente che la sceneggiatura, in maniera tutt’altro che subdola, abbia operato una cernita nella carriera del complesso per raggrupparne i momenti più epici e grandiosi, costituendo un documento per lunghi tratti eccessivamente prevedibile e “masturbatorio”. Per altro lo stile con cui viene ricordata l’escalation di concerti sempre più colossali rende giustizia ai Queen solo grazie al fantastico e fragoroso sonoro che esalta alla perfezione gli assoli di May, gli acuti di Mercury e il basso prorompente di Deacon; per il resto la scelta optata è una sequela di immagini in rapidissima successione, diapositive in movimento, che tolgono ogni possibile profondità o sentiero narrativo a Bohemian Rhapsody. Per non parlare delle situazioni di contorno tra cui spiccano le telefonate tra Mercury e la fidanzata Mary Austin durante i tour, un dettaglio che speravo di non vedere almeno stavolta. La celebrazione al genio e alla sregolatezza sociale di Mercury c’è tutta: lui che si ribella alle imposizioni del padre, che si veste sgargiante per fare buona impressione, che inveisce contro il produttore discografico in una sequenza comunque romanzata (ironicamente scelto Mike Myers per questo ruolo, lui che in Fusi Di Testa si scatenava ascoltando i Queen), lui che da feste in casa sua coi personaggi più bizzarri perfezionando il più fulgido edonismo. In tutto questo non manca un tratto poco rassicurante, un po’ a tinte fosche, della sua personalità in una scena che ha forse dell’assurdo per essere vera: scoperta la propria omosessualità convince l’ormai ex fidanzata Mary a trasferirsi davanti a casa sua e la invita a brindare con lui, ma soltanto guardandosi dalla finestra, proponendo così il ritratto di una personalità contorta e anche un po’ manipolatrice.

 

Tutto è nelle mani, nel fisico e nell’espressività miracolati di Rami Malek, sosia vivente di Freddie Mercury, che riesce nella strabiliante impresa di riprodurre l’istrionico cantante in tutto e per tutto. La massima espressione viene raggiunta nel finale, con l’esibizione al Live Aid, che recupera l’inizio: venti minuti folgoranti, presi di pari passo dal concerto vero e proprio, che tra interpretazioni inappuntabili e un montaggio capolavoro, potrebbero valere il prezzo del biglietto. Peccato però si debba prendere parte ad uno spettacolo di cornice così piatto e banale. In aggiunta a questo, al netto delle diverse inesattezze storiche, dubito che un’opera simile possa soddisfare pienamente un vero fan dei Queen. Divertente e ben pensata può essere considerata la fase di registrazione del brano che titola il film, una vera ode alle idee e alla creatività del gruppo in quel momento. Complessivamente comunque l’opera, a parte un paio di momenti entusiasmanti, risulta super normale, considerata l’importanza del soggetto. Tanto normale che forse nemmeno il vero fanatico ne sentiva il bisogno.

Zanini Marco

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