Strage di Piazza della Loggia

Strage di Piazza della Loggia

Il buio del mattino di martedì 28 maggio 1974 avvolgeva ancora la città e grosse nuvole scure occupavano tutto il cielo. Il netturbino svuotò il cestino porta rifiuti, e lentamente abbandonò la piazza silenziosa. Un’ombra apparve dall’oscurità e si avvicinò alla fontanella vicino ad una colonna del porticato, e con delicatezza pose un pacchetto all’interno del cestino porta rifiuti, quindi, dopo un ultimo furtivo controllo, si dileguò velocemente.
Alle 8.30 le forze dell’ordine arrivarono in Piazza della Loggia a Brescia per il presidio, in vista della manifestazione di protesta, indetta dal comitato antifascista e dai sindacati, contro la recrudescenza del terrorismo di destra.
All’epoca i fascisti coinvolti beneficiavano di rinvii e ritardi con spregio della democrazia. I carabinieri si sistemarono in attesa sotto il porticato vicino alla fontanella.
Sembrava una giornata autunnale, fredda e piovosa. Il maltempo rallentò l’afflusso dei cortei che confluivano in piazza. La pioggia scendeva in maniera sostenuta e la gente sprovvista di ombrello si riparò nel porticato sotto la torre dell’Orologio.
Per evitare la promiscuità le forze dell’ordine si spostarono di una ventina di metri.
Pochi minuti dopo l’inizio del comizio, precisamente alle 10.12, mentre il sindacalista Franco Castrezzati inveiva contro l’Msi e Almirante per il silente appoggio al terrorismo nero, settecento grammi di esplosivo da mina messi nel cestino porta rifiuti deflagrarono innescati da un detonatore comandato a distanza.

 

Chi si trovava sotto i portici venne investito dall’esplosione e scaraventato ovunque. Il fumo acre azzurro-grigio aleggiò nell’aria e lentamente si diradò, ci fu un solo attimo di silenzio, innaturale, subito rotto da grida di dolore, disperazione, paura.

La scena che apparve suscitò orrore nei presenti. Corpi dilaniati e sanguinanti. Sei persone trovarono

la morte subito, e altri due morirono in seguito. Ci furono anche centodue feriti, alcuni molto gravi.

 

 

Dal palco una voce esortava la gente a stare calma e a lasciare la piazza per facilitare l’arrivo dei soccorsi.

Due furgoni di celerini invasero la piazza e incominciarono a manganellare, senza ritegno, i presenti.

L’ottusità della questura di Brescia trovò ulteriore conferma nella convinzione che persino i feriti vennero sospettati di complicità con i terroristi.

L’attentato fu rivendicato contemporaneamente all’esplosione con una lettera recapitata alla redazione del “Giornale di Brescia”, dal gruppo Ordine Nero (che aveva preso il posto di Ordine Nuovo), ma le indagini vennero indirizzate dalla questura di Brescia verso gli attivisti di sinistra. La macchina del depistaggio si mise in moto immediatamente, come dopo la strage di Piazza Fontana a Milano.

Appena due ore dopo l’esplosione, il vicequestore Aniello Diamare, lasciato solo dal procuratore capo della Repubblica Dante Maiorana (che non attese neanche l’arrivo della scientifica e rientrò frettolosamente in tribunale) diede l’ordine, improvvidamente, di lavare la piazza cancellando di fatto tutte le eventuali prove e vanificando il lavoro degli inquirenti.

Le indagini furono condotte dal capitano del Nucleo investigativo dei Carabinieri di Brescia Francesco Delfino, in maniera superficiale e irresponsabile.

Non si cercarono nemmeno i frammenti nei corpi delle vittime. Inchieste e depistaggi, che partirono in maniera inequivocabile dagli ambienti dei servizi segreti, s’incrociavano senza sosta, intralciandosi l’una con l’altra.

Francesco Delfino, nel frattempo diventato Generale dei Carabinieri, nel febbraio del 2014, poco prima della sua morte, rilasciò un’intervista a Stefania Limiti, ammettendo, con estrema naturalezza, che all’epoca le indagini ebbero dei condizionamenti per non “disturbare” Ordine Nuovo.

Delfino confermò anche che gli americani esercitavano un potere per mantenere il caos in Italia manovrando le indagini indesiderate.

Si giunse comunque al 2 giugno 1979 quando i giudici della Corte d’Appello di Brescia condannarono all’ergastolo Ermanno Buzzi (strangolato in carcere nel dicembre 1981, con i lacci delle scarpe, da Mario Tuti e Pierluigi Concutelli) e a 10 anni Angelino Papa. Ma fu solo l’inizio di un calvario giudiziario che vide negli anni a seguire tre istruttorie, processi condanne e assoluzioni.

Il 14 aprile 2012, vennero assolti definitivamente gli ultimi (cronologicamente parlando) imputati: Zorzi, Maggi, Tramonte e Delfino.

Paradossalmente i parenti delle otto vittime e i feriti sopravvissuti di quella tragica mattina furono condannati (sic) a pagare le spese processuali che nel frattempo crebbero a dismisura.

Il Presidente del Consiglio di allora, Mario Monti, decise di far assumere allo Stato questo onere.

Il 20 febbraio 2014 il sostituto pg della Cassazione Vito D’Ambrosio chiede di annullare le assoluzioni per Maggi (in quanto sarebbe esecutore e mandante del vile attentato), Zorzi e Tramonte e di celebrare un nuovo processo.

Carlo Maria Maggi e Maurizio Tramonte

Il 20 giugno 2017 la Cassazione accoglie la richiesta del pg Alfredo Pompeo Viola e conferma la condanna all’ergastolo per il capo di Ordine Nuovo, Carlo Maria Maggi di ottant’anni e dell’ex fonte “Trifone” dei servizi segreti, Maurizio Tramonte di sessantacinque anni. Poco dopo il verdetto Tramonte ha fatto perdere le sue tracce, ma è stato arrestato dalla polizia portoghese a Fatima.

Dal dicembre 2017 è in cella Italia ed è l’unico ritenuto responsabile.

Carlo Maria Maggi è morto il 26 dicembre 2018 a Venezia dove risiedeva. Malato da tempo per una neuropatia congenita aveva ottenuto gli arresti domiciliari.

Le vittime:

Giulietta Banzi Bazoli

Livia Bottardi in Milani

Alberto Trebeschi

Clementina Calzari Trebeschi

Euplo Natali

Luigi Pinto

Bartolomeo Talenti

Vittorio Zambarda

Forse dopo 45 anni, undici processi e tre istruttorie si potrà mettere fine a questa tristissima e nera pagina di violenza e dolore.

 

Alberto Zanini

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