Pears – Green Star – Un flusso hardcore attraverso le sue declinazioni.

Pears – Green Star

 pears-green-star2016

Anno: 2016

Provenienza: USA

Genere: Punk Hardcore

Membri: Zach Quinn – voce, Brian Pretus – chitarra/voce, Jarret Nathan – batteria

Casa discografica: Fat Wreck Chords

 

  1. Christmas ’91
  2. Hinged By Spine
  3. Cumshots
  4. I Love My Kennel
  5. Anhedonia
  6. The Flu
  7. Green Star
  8. Bug Aware
  9. Partridge
  10. Dizzy Is Drunk
  11. Snowflake
  12. Cloverleaf
  13. The Tile Of St. Stewart
  14. Doorbell
  15. Jump The Fuckin’ Ship
  16. Great Mt. Ida

 

I Pears provengono dalla scena Punk Hardcore di New Orleans. Il loro passato è riconducibile ad un gruppo chiamato Lollies. Dopo questa primordiale esperienza i nostri si prendono una pausa per riordinare le idee, troppo spesso offuscate dall’alcool, e si ribattezzano Pears. L’esordio del 2014 è col botto e porta il titolo Go To Prison, insomma una dichiarazione d’intenti. I consensi nei loro confronti sono di livello mondiale perciò all’interno del movimento sotterraneo si fanno notare subito per le loro indiscutibili qualità. Il disco che andrò ad esaminare è il loro bis, Green Star, uscito proprio quest’anno. Ciò che era stato proposto fino ad’ora è rimasto pressoché immutato perciò avanti tutta con un ibrido di Punk Hardcore, Punk Hardcore melodico e Thrashcore. Niente variazioni sul tema quindi, ma il punto qui è: come lo fanno? In maniera stratosferica. I Pears sono dei maestri e complessivamente dimostrano anche di saperci fare di più di certi loro antenati, e stiamo parlando di quella scuola composta da NOFX, Good Riddance, Propagandhi e Lagwagon. Il loro approccio è assolutamente anni ’90, anche se i nostri non mancano di annoverare nelle loro influenze gruppi più vecchi come Descendents o Ramones. Ma non è tutto: nella loro musica sono presenti altre influenze, assorbite con una sicurezza e una spavalderia encomiabile.

Una voce robotica che ripete: “Green Star” introduce l’apripista Hinged By Spine. Un riscaldamento, un po’ come dire: “Ciao,noi siamo i Pears, questo è quello che facciamo di solito.” Che sarebbe miscela di Hardcore melodico e di quello più violento e muscolare. Deve ancora venire il bello, ma ci mette poco… Cumshots è un pezzo memorabile. Parti convulse si alternano ad altre melodiche, dove si mette subito in mostra il talento di Zach alla voce. La sua prova è di alto livello e vi posso assicurare che anche dal vivo eccelle, oltre ad essere un grande animale da palco. Comunque gli stacchi e le ripartenze improvvise di Cumshots sono eccezionali. Grandissimi!

La sintesi tra potenza e melodia dei Pears è perfetta, diretta e può vantarsi anche di una varietà inaspettata, come si può sentire in I Love My Kennel. Velocissimo, furioso ma al contempo melodico, questo è Anhedonia. Ad un certo punto fa’ capolino la voce urlata di Zach, seguita da un coro da pelle d’oca che insiste: “Give me death!” Il tutto accompagnato da riff prima cupi e poi emozionanti. Un gioiello. Stare dietro ai Pears è veramente difficile. Il gruppo americano dimostra di saper ragionare egregiamente ad altissime velocità. Nonostante la brevissima durata The Fly contiene idee fantastiche: un inizio terremotante e un giro di chitarra pazzo e stranissimo, da manicomio. La traccia che da’ il titolo al disco è un altro perfetto esempio di come i nostri siano bravissimi ad usare il bastone e la carota picchiando come dei fabbri per poi lasciarsi andare a dei cori da brividi. Sotto questo vulcano sonoro in piena eruzione si muove una base ritmica tellurica, inarrestabile ed infallibile. Insomma, da applausi.

L’unico momento non particolarmente degno è praticamente a metà, con Bug Aware, un pezzo normale dove si fa’ ricordare solo un apprezzabile coro: “No god, no hope!” E’ un caso isolato, perché con Partridge ritornano subito in pista. Un pezzo tipico dei Pears, dove la sorpresa più grande è un’incursione negli anni ’60 con un accenno di Day Tripper dei The Beatles. Incredibile. La musica del gruppo ha nel suo piccolo una certa complessità e Dizzy Is Drunk aggiunge qualcosa di inusuale. Zach in questa occasione infatti si cimenta al piano, regalandoci un breve intermezzo malinconico e gradevole, quasi lounge, che sembra comunque ricordare qualcosa di già sentito. Una mossa audace e a mio parere molto apprezzabile. Snowflake e Cloverleaf rappresentano il lato più tenero dei Pears, senza farsi mancare un po’ di sana violenza. In ogni caso è perfettamente chiaro che i ragazzi della Louisiana sono incazzati ma emotivi, e riescono a dimostrarlo nella loro musica; questo è il loro aspetto vincente. Da segnalare in Cloverleaf dove, dopo un’apparente finale, rinvengono con un giro di chitarra convulso per una conclusione vibrante che ricorda certo Thrashcore dei Cryptic Slaughter. Eccellente. Da un punto di vista compositivo The Tile Of St. Stewart è il pezzo migliore di Green Star. Riff cupi e pesanti,praticamente metal. Il ritorno agli anni ’90 è completo con Doorbell a cui segue il secondo ed ultimo intermezzo di piano di Zach. Il risultato è sempre piacevole. La fine è giustamente affidata a Great Mt. Ida. La complessità ritmica del pezzo è notevole e la batteria attraversa diversi passi con facilità irrisoria. Il crescendo finale è adeguatamente emozionante ed esplode in urla liberatorie. In una parola, catarsi.

I Pears sono dei professionisti nella loro materia, se volete qualcosa di fottutamente potente ma fatto con una certa classe e dei suoni cazzuti fate assolutamente vostro questo disco!

 

Voto:8

 

Zanini Marco

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