Paolo Borsellino, Giovanni Falcone e Cosa nostra. (1/3)

“Chi ha paura muore ogni giorno, chi non ha paura muore una sola volta”  (Paolo Borsellino)

 

Paolo_Borsellino

 

Negli anni 70 tre uomini erano a capo della Cupola: Luciano Liggio, del clan dei corleonesi (Salvatore Riina, Bernardo Provenzano e Leoluca Bagarella), Stefano Bontate, boss di Palermo, e Gaetano Badalamenti, boss di Trapani. Nel 1977 Badalamenti fu espulso dalla Commissione perché accusato di essersi arricchito con la droga all’insaputa degli altri. Il suo posto venne preso da Michele Greco, alleato dei corleonesi. Salvatore Riina, folle sanguinario, ma anche abile stratega, condizionava le scelte della Commissione, sfiduciando o uccidendo coloro che riteneva pericolosi.

Nel 1978 Salvatore Riina fece uccidere Giuseppe Di Cristina, boss di Riesi, perché amico di Stefano Bontate. Anche Pippo Calderone, boss di Catania e legato a Bontate venne giustiziato, e Nitto Santapaola, amico di Riina, assunse il comando a Catania. Quella che venne chiamata: “ la seconda guerra di mafia”, iniziò ufficialmente il 23 aprile del 1981 quando Riina decise di eliminare sia Stefano Bontate, e 11 giorni dopo Salvatore Inzerillo, compresi i familiari.

Totò Riina era riuscito ad avere il controllo della maggioranza all’interno della Commissione.

Da piccolo contadino ladro di bestiame e di macellazione clandestina diventò il boss sanguinario indiscusso e temuto. Una carriera costruita sul sangue degli altri.

Nel novembre del 1982, Salvatore Riina, non riuscendo ad infiltrare nessuno dei suoi uomini all’interno del gruppo di Saro Riccobono, che in realtà era un suo alleato, decise di eliminarlo assieme ai suoi uomini. I corpi vennero fatti sparire sciolti nell’acido. Gaspare Mutolo era il braccio destro di Riccobono e dopo questo episodio maturò il proposito di parlare con Giovanni Falcone. Ma il giudice non lavorava più in magistratura, quindi consigliò Mutolo di rivolgersi a Paolo Borsellino, garantendo l’assoluta affidabilità e serietà del collega.

I corleonesi presero di mira anche Tommaso Buscetta che negli anni sessanta fu killer e contrabbandiere. Ripiegò all’estero, negli Stati Uniti ed in Brasile, e infatti venne chiamato “il boss dei due mondi”. In quegli anni si trovava in Brasile e Riina decise la mattanza della sua famiglia. Vennero uccisi tre fratelli, un nipote, il genero e molti amici. Don Masino venne arrestato ed estradato in Italia. Il 16 luglio 1984 Buscetta nella sede della Criminalpol di Roma decise di collaborare con la giustizia raccontando la sua verità a Giovanni Falcone, Vincenzo Geraci e Gianni De Gennaro.

 

Tommaso Buscetta
Tommaso Buscetta

La confessione riempì trecentoventinove pagine. Secondo il pentito la seconda guerra di mafia fu una strategia accurata per eliminare chi si era dimostrato alleato di Bontate, Inzerillo e Badalamenti.

Alla fine i magistrati incominciarono a capire come era strutturata Cosa Nostra. Si fece luce su centoventuno omicidi imputabili alla mafia siciliana, furono contestati trecento reati e vennero emessi trecentosessantasei ordini di cattura. Antonino Caponnetto che era il magistrato chiamato al posto di Rocco Chinnici, creatore del pool antimafia e ucciso da Cosa Nostra per mano di Antonino Madonia, decise di seguire lo stesso percorso del suo predecessore affidando la squadra a Giovanni Falcone, Paolo Borsellino, Giuseppe Di Lello e Leonardo Guarnotta.

Totuccio Contorno era un fidato uomo di Bontate e sfuggì miracolosamente all’ennesimo attacco dei corleonesi, rimanendo soltanto ferito, braccato riuscì a fuggire dalla Sicilia, si rifugiò a Bracciano dove, nel marzo del 1982, venne arrestato. In carcere maturò anche lui l’idea di collaborare con la giustizia. In una intervista rilasciata al giornalista dell’Unità, Saverio Lodato, Paolo Borsellino disse: “Le dichiarazioni dei pentiti hanno rappresentato un punto di forza, ma solo all’inizio. In seguito abbiamo fatto ricorso a intercettazioni telefoniche, a un minuzioso esame di materiale bancario e patrimoniale sterminato”. Le indagini portarono anche allo scoperta di una enorme raffineria di eroina a Bagheria in provincia di Trapani.

In quegli anni sicuramente il contributo dei pentiti fu importante e per certi versi anche fondamentale, però nessuno di loro ha mai voluto chiarire il rapporto tra mafia e politica. Ultimamente però Gaspare Mutolo nel libro “La mafia non lascia tempo” scritto da Anna Vinci ammette i rapporti sempre esistiti tra mafia e potere politico accennando anche al rapporto mafia massoneria, e al controllo che quest’ultima fa sulla politica.

maxiprocesso

Le dichiarazioni dei pentiti permisero il 10 febbraio 1986 di far partire il primo maxi processo che dovette affrontare parecchi problemi a decollare. Dei cinquanta giurati popolari estratti all’inizio solo quattro accettarono di partecipare al processo. Buscetta e Contorno in aula ebbero il confronto con i mafiosi dimostrando molto coraggio. Furono coinvolti 460 imputati e 200 avvocati difensori. Rilevante fu il numero di latitanti, praticamente un terzo degli imputati. Il 16 dicembre 1987, dopo 35 giorni di camera di consiglio furono emesse le sentenze di primo grado. Diciannove ergastoli, tra cui quello a Bernardo Provenzano e a Salvatore Riina latitanti da molti anni. Buscetta e Contorno, in quanto dissociati e collaboratori ebbero pene abbastanza miti. Tre anni e sei mesi per Don Masino e sei anni per Contorno. Le sentenze definitive della Cassazione furono emesse il 30 gennaio 1992.

Il rapporto tra Cosa nostra e la politica esiste fin dall’Ottocento. Una tacita convivenza che ha permesso alla mafia di vivere nella illegalità impunemente per tanti anni. Ma come in tutti i rapporti ogni tanto si litiga. Il maxiprocesso fece arrabbiare moltissimo Cosa nostra. Falcone un giorno disse: “La mafia non accetta l’idea di farsi processare”. Rocco Chinnici prima, Antonino Caponnetto dopo, la legge Rognoni-La Torre, con il riconoscimento del reato di associazione di stampo mafioso e l’aumento delle pene rappresentavano un grosso fastidio per Cosa nostra, impreparata ad affrontare queste nuove regole. Erano in pericolo tutte le attività della mafia siciliana che si dedicava con particolare attenzione alla droga, agli appalti tramite gli agganci politici e l’imprenditoria.

Il pentito Leonardo Messina in un colloquio con Paolo Borsellino dichiarò che Salvatore Riina teneva i soldi nel calcestruzzo, riferendosi alla “Calcestruzzi Spa” la società di Raul Gardini. Il magistrato palermitano ebbe l’ulteriore conferma che dopo Duomo Connection e Mani Pulite il rapporto tra Cosa nostra, politica e imprenditoria era consolidato.

Per la cronaca Raul Gardini fu trovato morto nel suo letto il 23 luglio 1993. probabilmente fu “suicidato” dalla mafia.

Raul Gardini

Un dato interessante e che rende l’idea del notevole giro d’affari della mafia: nel 1985 i depositi bancari siciliani ebbero un incremento di duemila miliardi di lire.

La reazione di Cosa nostra alla sentenza definitiva del maxi processo fu immediata e il 12 marzo 1992 Salvo Lima, europarlamentare della Dc e referente di Giulio Andreotti in Sicilia, cadde vittima di un attentato. Riina volle punire i taciti accordi non onorati dal potere politico. Fu l’inizio della guerra che la mafia dichiarò allo Stato.

Contestualmente al processo, il 1992 si ricorda come l’anno di “Tangentopoli”. I partiti che imponevano le tangenti agli industriali per permettere loro di lavorare. La Dc e il Psi furono implicati pesantemente, ma anche il Partito Repubblicano, quello Liberale e il Partito Socialdemocratico. Il Partito Comunista venne solo sfiorato. In questo misero quadro politico il movimento populista della Lega di Bossi trovò terreno fertile nell’opinione pubblica e si affermò nel nord Italia.

Finalmente grazie ad un processo venne riconosciuta l’esistenza, sempre smentita dalla politica, di Cosa nostra. Ma in questo vuoto politico venne a mancare il supporto al lavoro della magistratura nella lotta alla mafia.

Paolo Borsellino alla conclusione del processo che mise in ginocchio Cosa nostra e dopo la nomina di Antonino Meli (che il Csm preferì a Giovanni falcone) al posto di Antonino Caponnetto come consigliere istruttore a Palermo, manifestò la sua preoccupazione davanti al Comitato antimafia del Csm in merito al rischio dello smantellamento del pool.

Queste dichiarazioni pronunciate il 31 luglio 1988 sono state desecretate nel luglio 2017 in occasione del venticinquesimo anniversario della morte di Borsellino.

“Ho senza esitazione parlato di segnali di smobilitazione del pool antimafia, né temo mi si possa rispondere che il pool è stato anzi arricchito di nuovi elementi, poiché non si arricchisce certo un pool, se la sua essenza rettamente si intende, aumentando il numero dei suoi magistrati senza gli opportuni criteri di scelta e contemporaneamente disattendendo le ragioni stesse della creazione di tale organismo”.

“Il pool antimafia di Palermo allo stato rappresenta l’unico organismo di indagine ancora efficace in materia di criminalità mafiosa, stante la carenza indubitabile delle forze di Polizia”,

“Non ho riferito le confidenze dei colleghi ma mi sono formato una convinzione sulla base di colloqui con persone con cui ho lavorato a lungo, con le quali ho un’intesa perfetta, su quella che era la situazione. Ho quindi riferito questa situazione che mi sembra fosse importantissimo riferire perché o parliamo per enigmi o per allusioni e diciamo che c’è una caduta di tensione o che manca la volontà politica e la gente non capisce bene che cosa significa, oppure se questi problemi li dobbiamo affrontare concretamente dobbiamo citare fatti e mettere il coltello nella piaga e dire: ‘c’è un organismo centrale nelle indagini antimafia che in questo momento non funziona più.”

Borsellino sottolineò infine la preoccupazione che “quando un pool sostanzialmente non è messo in condizione di rispondere alla sua attività, a quelle che sono le ragioni fondamentali della sua esistenza, difficili da cogliere se maturate in lunghi anni di funzionamento, e sostanzialmente è ridotto soltanto a un numero di tre, quattro, cinque magistrati che lavorano assieme, non è più un pool.”

Il magistrato al termine della sua audizione concluse: “c’è una persona che di entusiasmo ne sa vendere a tutti e in tutti i modi e, pertanto, io sono rimasto sinceramente preoccupato nel momento in cui l’entusiasmo gliel’ho visto perdere. Mi riferisco a Giovanni Falcone”.

I timori di Borsellino, purtroppo furono un tragico presagio quando, il 23 maggio del 1992, Giovanni Falcone trovò la morte a Capaci assieme a sua moglie, Francesca Morvillo, e a tre uomini della scorta: Antonio Montinaro, Rocco Dicillo e Vito Schifani.

 

 Giovanni Falcone e Paolo Borsellino
Giovanni Falcone e Paolo Borsellino

L’omicidio di Falcone ebbe un doppio significato. Venne eliminato un nemico forte e fastidioso, e l’assassinio doveva essere un monito intimidatorio nei confronti dell’antimafia.

Enrico Deaglio nel suo libro “Il vile agguato” racconta di uno strano e sconosciuto personaggio italoamericano di nome Salvatore Amendolito, che aveva il compito di riciclare i soldi di Cosa nostra in America. Quando fu arrestato nel 1983 divenne un collaboratore dell’Fbi e contribuì nell’operazione “pizza Connection” che inflisse un duro colpo alla mafia americana e alla famiglia Gambino. Amendolito mise sull’avviso il 23 febbraio 1990 Giovanni Falcone facendogli pervenire un dossier di 31 pagine sulla mafia. Spedi anche il 24 aprile del 1991 una lettera a Giulio Andreotti avvisandolo dell’imminente attacco della mafia allo Stato. E dopo la strage di Capaci annunciò che presto sarebbe toccato a Paolo Borsellino.

La reazione del governo alla strage di Capaci fu naturalmente molto dura. Il ministro di Grazia e Giustizia, Martelli disse: “L’uccisione di Falcone, della sua compagna, dei tre agenti della scorta sarà per la mafia il peggiore affare della sua storia”. Un decreto firmato da Martelli e Scotti prevedeva delle misure ulteriormente restrittive come il famigerato 41 bis tanto temuto ed osteggiato dai mafiosi. Però entrò in vigore dopo la morte di Borsellino.

Falcone morì in ospedale tra le braccia del suo amico d’infanzia Paolo Borsellino, che in chiesa rimase in piedi di fianco alla sua bara immobile ed assorto, sapendo fin da quegli attimi che l’eredità ricevuta sarebbe stata pesante e gravosa.

Ilda Boccassini, amica di Falcone, nell’aula magna del tribunale di Milano pronunciò parole durissime nei confronti di coloro che avevano in qualche modo criticato od osteggiato il lavoro del collega morto.

<<Voi avete fatto morire Giovanni, con la vostra indifferenza e le vostre critiche; voi diffidavate di lui; adesso qualcuno ha pure il coraggio di andare ai suoi funerali.Le parole più gentili, specie da Magistratura democratica, erano queste: Falcone si è venduto al potere politico. Mario Almerighi lo ha definito un nemico politico. A Giovanni è stato impedito nella sua città di fare i processi di mafia. E allora lui ha scelto l’unica strada possibile, il Ministero della Giustizia, per fare in modo che si realizzasse quel suo progetto: una struttura unitaria contro la mafia. Ed è stata una rivoluzione>>.

Ilda Boccassini

Borsellino con la solita schiettezza puntò il dito verso quella parte di politica, di istituzione e di informazione che fecero di tutto per ostacolare e depotenziare l’operato di Falcone. Criticò aspramente anche la decisione del Csm di aver preferito Antonino Meli alla guida dell’ufficio istruzione piuttosto che Falcone quando Caponnetto decise di ritornare a Firenze. Decisione che costrinse Falcone ad accettare l’invito del Ministro Martelli di trasferirsi a Roma.

Alla procura di Palermo, il capo era Pietro Giammanco, che ostacolò continuamente il lavoro di Borsellino, perfino nascondendo conoscenze acquisite che sarebbero servite nel corso delle indagini. Borsellino era consapevole che bisognava far convivere la paura con il coraggio. Sapeva che avrebbe pagato il massimo tributo, perché quando lo Stato non ti protegge abbastanza o addirittura ti abbandona, allora è lo Stato che ti uccide, in questo caso per mano della mafia.

Davanti all’abitazione di Borsellino in via Cilea non era possibile parcheggiare, quindi erano tre i posti potenzialmente a rischio attentati per il magistrato: Il Palazzo di Giustizia, la Chiesa frequentata abitualmente e via D’Amelio dove abitava la madre e la sorella.

Mafia, massoneria-politica, e poteri eversivi sono sempre stati legati da taciti accordi, il maxiprocesso aveva drasticamente cambiato la realtà. Ma qualcuno stava cercando di ripristinare la situazione precedente. Una trattativa fra Stato e mafia in canali nascosti e segreti veniva portata avanti.

Il 28 maggio il capitano dei carabinieri Giuseppe De Donno incontrò sul volo di linea Palermo – Roma Massimo Ciancimino, figlio di Vito ex sindaco mafioso di Palermo. De Donno conosceva Massimo dai tempi del processo per mafia nei confronti di suo padre, e durante il volo il carabiniere chiese al giovane Ciancimino se suo padre fosse disponibile ad un colloquio. L’aggancio a Don Vito era considerato importante per il rapporto stretto tra l’ex sindaco e Bernardo Provenzano boss latitante da molti anni. Vi furono un paio di incontri interlocutori tra De Donno e Vito Ciancimino nella casa di Roma in via San Sebastianello dove si discusse di informazioni di carattere investigativi. Quindi il 20 giugno in un ennesimo incontro oltre a De Donno si presentò anche il colonnello del Ros Mario Mori. Partì la trattativa anche se all’inizio Ciancimino non si fidava dei carabinieri ed alla sua richiesta di un garante, Mori disse che loro erano i rappresentanti dello Stato e di aver avuto l’incarico dal Generale Antonio Subranni.

Vito Ciancimino

La moglie di Borsellino anni dopo dichiarò che suo marito, pochi giorni prima di morire, le confidò che il generale Antonio Subranni aveva frequentazioni con Cosa nostra.

Totò Riina venne messo al corrente in carcere dal suo medico di fiducia Nino Cinà. La risposta fu il famoso papello con le dodici richieste.

Le richieste sembrarono subito inaccettabili dall’ex sindaco di Palermo e perfino da Provenzano. Lo Stato naturalmente non accettò e a sua volta fece delle controfferte, che vennero rifiutate da Ciancimino ritenendole troppe esigue. La trattativa si arenò.

Fine Prima parte

ultimo aggiornamento: luglio 2019

 

Alberto Zanini

qui trovate la seconda parte

Paolo Borsellino,via D&#8217;Amelio. Cosa nostra o servizi segreti? (2/2)

 

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