Non c’è sull’etichetta – Felicity Lawrence Recensione

Un piccolo pasto per l’uomo, un grande pasto per l’umanità

etichetta

Iniezioni d’acqua e di proteine nella carne di pollo per farne aumentare il peso fino al 50%. Fagiolini misurati uno per uno con il righello. Vassoi d’insalata che riescono, sommati i percorsi compiuti da ogni singolo ingrediente, a percorrere anche 160.000 chilometri in camion e in aereo.

Non è la trama di un romanzo di fantascienza, è esattamente quello che capita dietro le quinte del mercato alimentare.

Ricordo su di un Topolino di una ventina di anni fa una storia (peraltro incredibilmente profetica) che parlava di come degli esperti erano riusciti ad ottenere con sapienti incroci le “banère”, pere che si sbucciavano come banane, oltre all’ “uvùria”, che nei loro intenti doveva essere uva con chicchi grandi come angurie, mentre avevano ottenuto degli enormi e scomodissimi grappoli di angurie. Ma la realtà, come al solito, supera le più ardite fantasie. Lo scopriamo sul libro di oggi, Non c’è sull’etichetta. L’autrice racconta, ad esempio, la storia di un vassoietto di verdure, che si trova in vendita nei supermercati inglesi. I vassoi di plastica e gli steli di erba cipollina usati per legare le verdure vengono mandati dall’Inghilterra con l’aereo fino in Kenya. Là i prodotti locali vengono legati in mazzetti ed imballati, dopodiché il tutto torna in Inghilterra, dopo un viaggio di 13.500 chilometri e un prezzo al dettaglio di 2 sterline e 99 centesimi per pochi grammi di verdura. Trasportare prodotti da un lato all’altro del pianeta, con dispendio enorme di carburante e di mezzi, pare essere uno dei passatempi preferiti dei trafficanti di generi alimentari. Così accade che in Trentino, patria delle mele, si importino mele a tonnellate, e lo stesso avviene in ogni parte del mondo per i vari prodotti locali. Complice in tal caso è la detassazione del carburante per gli aerei, che così artificiosamente divengono il mezzo più economico per chi vende, tanto il prezzo lo paga la collettività e l’ambiente. E non sono certo gli unici sprechi. Interi raccolti vengono distrutti per tenere alti i prezzi, e quantità enormi di frutta e ortaggi sono scartati per motivi di pezzatura e di perfezione estetica.

Anche le tasse, soprattutto per i piccoli agricoltori, e le sovvenzioni, soprattutto per le grandi aziende, fanno in modo da squilibrare il mercato. Così ad esempio gli aiuti europei ai coltivatori di barbabietola fanno sì che il nostro zucchero convenga rispetto a quello prodotto nei paesi in via di sviluppo, il cui costo di produzione è infinitamente minore, ma che viene pesantemente tassato sui nostri mercati.

Gli stessi paesi non possono rivalersi nemmeno con la vendita dei prodotti per i quali, per motivi climatici, possiedono l’esclusiva, come banane, zucchero di canna e caffè. Un coltivatore africano può ricevere ad esempio qualcosa come 14 centesimi di dollaro per un chilo di caffè, quindi con il ricavato della vendita di sei chili di chicchi potrebbe prendersi un espresso in uno dei nostri bar. In piedi e senza brioche.                                                                                         

Un altro ricordo fumettistico del sottoscritto è la “bistecca spray”, che all’epoca mi faceva sorridere per la sua insensatezza. Invece, leggendo il capitolo sugli orrori dei cibi pronti scopriamo che ormai esiste anche questo: bombolette all’aroma di tartufo sintetico ed altre prelibatezze chimiche per insaporire i piatti.

L’autrice è poi andata di persona ad intervistare lavoranti agricoli e operai delle industrie alimentari di ogni razza e nazionalità, precari, sottopagati e privi di qualsiasi diritto, facendo emergere un quadro sconfortante.

Infine viene denunciato lo strapotere delle grosse catene di supermercati, che stanno costringendo milioni di piccoli dettaglianti a chiudere, usando mezzi sleali come le vendite sottocosto e smerciando prodotti di bassa qualità.

Da come si può vedere, oltre a quelli di grano e di mais sono molti i campi minacciati da questo stato di cose. Ambiente, lavoro, salute, società, economia… cosa possiamo fare come singoli per difenderci? Innanzitutto dovremmo imparare a leggere meglio le etichette e quello che vi sta dietro, e a fare finta che le pubblicità di cibo-spazzatura che ci martellano siano gag comiche e cortometraggi di fantascienza, poiché solo uno stomaco marziano o venusiano può ritenere appetibili certi cibi industriali ipergrassi, iperglucidici e stracarichi di additivi. L’alimentazione dovrebbe essere più semplice e meno elaborata possibile, visto che ogni passaggio toglie un po’ di vita ai manicarretti che la natura ci ha preparato. E dovremmo rivalutare, nei limiti concessici dai nostri portafogli, il piccolo commercio, quello dei negozi di quartiere, dei mercati e delle aziende agricole locali. Poi andrebbero considerate le possibilità di fare la spesa in modo alternativo, tramite il commercio equo e solidale e i gruppi d’acquisto. Vale la pena di investire un po’ in termini di fatica, tempo e denaro per rendere più sana la nostra tavola, pensando che se stiamo meglio noi starà meglio anche la nostra società.

Così potremo dire anche noi come disse Armstrong, quando, atterrato nel ’69 sulla Luna, la trovò composta di ottimo formaggio: “È un piccolo pasto per l’uomo, un grande pasto per l’umanità”.

 

Felicity Lawrence, Non c’è sull’etichetta, ed. Einaudi/gli struzzi

 

Francesco Gizdic

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