Giovanni Falcone: la strage di Capaci

Giovanni Falcone: la strage di Capaci

Giovanni Falcone lavorava come sostituto procuratore a Trapani, e nel luglio del 1978 ottenne il trasferimento a Palermo nella sezione fallimentare del tribunale, dove si occupò dei reati contro la pubblica amministrazione e reati fallimentari. Dopo un anno accadde un episodio che cambiò il corso della sua vita. Il 25 settembre del 1979 vennero uccisi, in un agguato, il Capo dell’Ufficio Istruzione del Tribunale di Palermo, Cesare Terranova e la sua unica guardia del corpo, il maresciallo di Pubblica Sicurezza, Lenin Mancuso. Falcone, il giorno dopo, chiese di poter lavorare nell’ufficio Istruzione ottenendo l’incarico.

All’inizio si dedicò, pazientemente, all’incredibile lavoro arretrato, finché Rocco Chinnici gli affidò un caso delicato e complesso. Il processo Spatola, dove si indagava su mafia e droga. Era la grande inchiesta degli anni ottanta. Falcone, avendo già maturata una certa esperienza nei reati valutari, intuì che se la droga partiva da Bagheria per gli Stati Uniti, come fu confermato dalla Guardia di Finanza, avrebbe dovuto necessariamente esserci un pagamento in dollari, quindi occorreva verificare dove questo flusso di denaro terminasse la sua corsa. Dopo aver ottenuto l’autorizzazione da Chinnici, Falcone chiese a tutti i direttori di Banca di Palermo e provincia di consegnare le distinte di cambio valuta dal 1975 in poi, i conti correnti e i depositi dei mafiosi coinvolti nel processo. Consapevolmente il magistrato andò a scoprire un nido di scorpioni, in quanto non tutti i direttori furono collaborativi, alcuni furono reticenti, altri risultarono addirittura complici dei mafiosi. Nel frattempo pettegolezzi invidiosi di colleghi e avvocati aleggiavano per i corridoi del Palazzo di giustizia. La documentazione permise di appurare i conti correnti cospicui degli imputati, e venne pure accertato che Michele Sindona usava il nome Joseph Bonamico per tornare tranquillamente da New York e per cambiare assegni in dollari alla Cassa di Risparmio di Palermo. Incominciarono ad arrivare lettere minatorie a Falcone a conferma del suo geniale intuito.

Alla fine dell’inchiesta Spatola fu condannato a dieci anni di reclusione.

Alle 8.05 del 29 luglio 1983 Rocco Chinnici, ideatore del Pool Antimafia, morì nell’esplosione di una Fiat 127 verde imbottita da settantacinque chili di tritolo mentre si apprestava a salire sull’Alfetta blindata che lo aspettava con gli uomini della scorta.

L’esplosione fu innescata da un telecomando azionato da un commando di killer mafiosi. Con il magistrato morirono il maresciallo Mario Trapassi e l’appuntato Salvatore Bartolotta ma anche il portiere dello stabile Li Sacchi. L’uccisione fu voluta dai cugini Ignazio e Nino Salvo.

A Palermo Falcone si trovò a lavorare con Paolo Borsellino. Si conoscevano fin da bambini, essendo nati nello stesso stesso quartiere ed avendo frequentato le stesse scuole, università compresa. Falcone diventò per la Mafia una persona scomoda, ed infatti cercarono di eliminarlo già nel giugno del 1989.

A pochi chilometri da Palermo vi era la villa estiva del magistrato, sul lungomare dell’Addaura a Mondello. Un giorno, confuso dai bagnanti che affollavano la spiaggia, un sub lasciò una borsa sulla scogliera a pochi metri dalla villa, quindi si allontanò su un canotto aspettando il momento giusto per far scattare il radiocomando. Ma il caso volle che, quattro poliziotti della guardia del corpo vedendo la borsa da sub si insospettirono e la aprirono scoprendo l’esplosivo contenuto all’interno.

Nella primavera del 1991 Falcone si trasferisce a Roma ormai esasperato da chi ostacolava il funzionamento della giustizia.

 

 

Tra ottobre e novembre 1991 si tenne a Castelvetrano, in provincia di Trapani, un incontro, della “Commissione regionale e provinciale di Cosa Nostra”, presieduto dal boss Salvatore Riina, ed al quale parteciparono, tra gli altri, Matteo Messina Denaro e i fratelli Graviano. Si decise di uccidere il giudice Falcone, che veniva considerato il nemico numero uno. Anche il ministro Martelli e il giornalista Maurizio Costanzo divennero obiettivi della mafia. Quella che diede la stura a tutte le operazioni, fu la sentenza, nel gennaio del 1992, della Cassazione che confermava gli ergastoli del Maxi processo, il primo grande processo alla mafia voluto dal magistrato Antonino Caponnetto, capo del Pool antimafia, e dal giudice Giovanni Falcone.

La reazione di Cosa Nostra non si fece attendere.

Falcone diventò un obiettivo primario., sia per il suo ruolo nel maxi processo ma per quello che avrebbe potuto fare contro cosa nostra.

Il luogo prescelto fu Roma dove ormai il giudice si era trasferito. Venne  mandata una squadra di killer formata da Matteo Messina Denaro, dai fratelli Graviano, da Fifetto Cannella e da Lorenzo Tinnirello.

L’attentato fallì a causa di una informazione sbagliata in merito del luogo dove Falcone si recava abitualmente.

Riina dopo il tentativo fallito, consapevole di stare perdendo credibilità, affidò l’incarico a Giovanni Brusca cambiando completamente il luogo e le modalità dell’attentato.

Il sole era già andato dietro l’orizzonte, quando tre macchine accostarono alla banchina del porticciolo di Porticello. Alcuni uomini uscirono dalle vetture e salirono su un peschereccio di Cosimo D’Amato ancorato al molo. Delle funi seguivano il profilo dei fianchi del natante e scendevano in acqua, dove legati vi erano 2 fusti, che vennero issati sul peschereccio, e da questo trasportati nel bagagliaio di una Renault. I fusti erano dei residuati bellici, risalenti alla seconda guerra mondiale, trovati in mare e rimasti impigliati nelle reti usate per la pesca a strascico. La Renault, guidata da Gaspare Spatuzza, si allontanò preceduta dalle altre due vetture che avevano il compito di vedetta. I bidoni vennero portati in un magazzino. Barranca e Cannella, della cosca Brancaccio, dopo una settimana di lavoro riuscirono ad estrarre dagli ordigni cento chili di tritolo. I boss ritennero la quantità insufficiente, e quindi vennero recuperati altri due fusti. L’esplosivo fu macinato, ridotto in polvere, raffinato e messo nei sacchi della spazzatura, dove venne compresso e nastrato strettamente, quindi Spatuzza lo consegnò ai fratelli Graviano.

Biondino, Ganci e Cancemi fecero dei sopralluoghi tra aprile e maggio per individuare il luogo idoneo per l’attentato. Una volta trovato il posto, venne misurata la lunghezza di un canale di scolo che passava sotto l’autostrada Punta Raisi-Palermo all’altezza dell’uscita per Capaci. La sera dell’8 maggio, Brusca, Gioè, La Barbera, Troia e Rampulla collocarono nel canale di scolo tredici panetti di tritolo, T4, ed altri componenti di circa cinquanta chili l’uno impiegando uno skateboard.

Alla fine del lavoro occultarono il buco del canale di scolo con un materasso. Venne anche posizionato un vecchio frigorifero che sarebbe servito come punto di riferimento al passaggio delle macchine.

I telecomandi e i telefonini furono procurati da Salvatore Sbeglia, intimo amico di Totò Riina.

Il 23 maggio, poco dopo le 17, atterrò all’aeroporto di Punta Raisi un aereo del Ministero partito da Roma con a bordo il giudice Falcone e sua moglie, tornati a Palermo per il weekend.

Tre auto blindate attendevano sulla pista con gli uomini della scorta.

Le auto presero la direzione di Palermo.

Apriva il corteo una Croma marrone, occupata dagli agenti Vito Schifani, Rocco Dicillo e Antonio Montinaro il capo scorta. Il giudice Falcone guidava la Croma bianca, con sua moglie seduta al suo fianco, mentre l’autista Giuseppe Costanza sedeva sul sedile posteriore. Sulla terza Croma azzurra, che chiudeva il corteo, gli altri tre agenti, Paolo Capuzza, Angelo Corbo e Gaspare Cervello. Durante il tragitto Costanza disse a Falcone: <<Signor giudice, lunedì mattina vi vengo a prendere per riportarvi all’aeroporto, si ricordi di darmi le chiavi>> Senza pensarci Falcone tolse le chiavi dal blocchetto dell’accensione con la macchina che viaggiava a centosessanta all’ora, e girandosi fece per darle al suo autista. <<Ma cosa fa signor Giudice, così ci ammazziamo>>

<<Hai ragione Giuseppe, scusa>> e velocemente Falcone reinserì le chiavi nell’accensione. La macchina perse leggermente velocità rispetto alla Croma Marrone che la precedeva, rallentando anche la Croma che la seguiva.

In località Raffo Rosso, accanto ad un casotto dell’acquedotto, a quattrocento metri di distanza dal luogo previsto, Gioè, munito di cannocchiale, quando vide la prima macchina passare davanti al frigorifero intimò a Brusca di far partire il radiocomando. Il sismografo di Monte Cammarata di Agrigento registrò l’esplosione alle ore 17 e 56 minuti e 32 secondi. Più di cinquecento chili di tritolo esplosero. Il manto stradale si sollevò e la prima Croma, colpita in pieno, venne proiettata in alto e dopo un volo di sessanta metri atterrò in un campo. La macchina venne trovata più tardi completamente distrutta con gli agenti morti carbonizzati. La polvere e una nube nera coprì tutto. La Croma bianca si ritrovò, senza il muso e con il motore completamente liquefatto dal calore dell’esplosione, sull’orlo di un cratere largo quattordici metri. Il giudice incastrato e sua moglie respiravano ancora ma erano in condizioni critiche. Occorse l’intervento dei Vigili del Fuoco per liberare Falcone dalle lamiere. Costanza era gravemente ferito. La terza Croma fu investita dai detriti ma gli agenti erano praticamente illesi. Il rallentamento dovuto alla disattenzione del magistrato salvò probabilmente la loro vita.

Falcone e sua moglie, Francesca Morvillo, furono portati all’Ospedale Civico.

Per assurdo il dottore del pronto soccorso che gli presta le prime cure è Andrea Vassallo, sospettato dallo stesso Falcone di essere, connivente con la Mafia. Falcone morirà poco dopo tra le braccia di Borsellino.

Giovanni Falcone sapeva che sarebbe morto in un attentato. Era solito dire: “Sarò isolato e poi Ucciso”. Per questa ragione aveva deciso di non fare figli.

L’attentato venne rivendicato da una fantomatica “Falange armata” che, dalle stanze del Viminale, si dedicava a depistare e diffondere false notizie.

Il magistrato che si dedicò alle prime indagini fu Alberto Di Pisa, che nonostante fosse stato condannato in quanto autore di lettere anonime contro lo stesso Falcone continuava a svolgere inspiegabilmente il suo lavoro.

Gli investigatori trovarono 43 mozziconi di sigarette Merit, 7 mozzicconi Ms e un mozzicone di Muratti. Dall’analisi del Dna vennero identificati Di Matteo e La Barbera, inoltre Gioè fu intercettato telefonicamente.

Dopo l’arresto i primi due decisero di collaborare con la giustizia, invece Gioè si suicidò in carcere. A Di Matteo i mafiosi rapirono il figlio e dopo 779 giorni di prigionia lo strangolarono e lo sciolsero nell’acido.

Giovanni Falcone La strage di Capaci Corriere della sera

 

Anni dopo Totò Riina venne intercettato, inconsapevolmente, nel carcere di Opera mentre confidava al suo compagno di detenzione, Alberto Lorusso, di aver fatto fare a Falcone “la fine del tonno”.

Nell’aprile del 2000 la Corte d’assise d’appello confermò le condanne d’ergastolo a Riina, Bernardo Brusca, Bagarella, ai fratelli Ganci, Biondino, Calò, i fratelli Graviano, Rampulla, Provenzano. I collaboratori Di Matteo, La Barbera, e Giovanni Brusca vennero condannati a pene tra i quindici e i ventuno anni di carcere.

In seguito alle deposizioni del pentito della cosca mafiosa del Brancaccio, Gaspare Spatuzza, nel maggio del 2014 iniziò il secondo troncone del processo chiamato “Capaci bis”.

In novembre Il giudice dell’udienza preliminare condannò il collaboratore Gaspare Spatuzza a dodici anni, mentre Cosimo D’Amato, il pescatore accusato di aver reperito il tritolo che servì per l’attentato, fu condannato a trent’anni di galera.

Nel luglio del 2016, la Corte d’assise di Caltanissetta ha condannato all’ergastolo per strage: Salvatore Mario Madonia, Cosimo Lo Nigro, Giorgio Pizzo e Lorenzo Tinnirello.

Il procuratore di Caltanissetta, Sergio Lari, escluse che ci potesse essere stato il coinvolgimento di persone estranee alla Mafia, quindi cadde il sospetto dei “mandanti a volto coperto”

Quindi tutto finito? Si, no, forse.

In realtà in questa storia rimangono alcune zone d’ombra, dei punti oscuri rimasti e che lasciano domande insolute che meriterebbero una maggiore attenzione.

L’esplosivo usato, venne accertato, era di uso civile ma anche militare. Tritolo, T4, nitrato d’ammonio, nitroglicerina ed altri componenti.

Tra le tante perizie, una venne fatta anche dai tecnici dell’Fbi, ma mai presa seriamente in considerazione, che trovarono tracce di Pentrite e Rdx, materiali esplosivi che si trovano nel Semtex, prodotto in Cecoslovacchia.

Non venne nemmeno presa in considerazione l’ipotesi avanzata da qualcuno che anche la mafia americana potesse essere coinvolta nell’attentato.

Antonino Gioè, mentre attendeva l’arrivo di falcone e la sua scorta, è stato appurato che chiamò tre volte un numero americano, del Minnesota, alle 15.17, per 40 secondi; alle 15.38, per 23 secondi; alle 15.43, per 522 secondi. Chi rispondeva, dal Minnesota?

Non sono state prese in considerazione neanche le testimonianze di chi ha notato quel giorno, prima della tremenda esplosione che ha sollevato l’asfalto dell’autostrada, la presenza di un furgone bianco e di operai che stendevano dei cavi ma che nessuno avesse mai ordinato di fare dei lavori in quella zona.

Anche dichiarazioni di pentiti hanno confermato l’esistenza di persone legate ai servizi segreti che non vedevano di buon occhio l’operato di Falcone che proprio in quel periodo stava indagando sulla struttura segreta di Gladio.

Il poliziotto, avvocato ed informatico Gioacchino Genchi dimostrò che dopo la morte di Falcone qualcuno fece un accesso fraudolento nel personal computer Olivetti e nell’agenda Casio del magistrato. Anche questo episodio fu sottovalutato dai giudici nisseni.

I giudici di Caltanissetta esclusero coinvolgimenti di soggetti esterni a Cosa nostra perché “quello che non è provato non esiste”.

Di conseguenza niente ipotesi o condizionamenti, anche se, sempre i giudici di Caltanissetta, concessero: ” l’apertura investigativa agli opportuni approfondimenti in caso di sopravvenienza di elementi oggi ignoti”.

il Pm Nino Di Matteo, magistrato sotto scorta del 1993, in una una intervista rilasciata ad Andrea Purgatori, sottolinea che la verità potrebbe essere parziale, in quanto crede che a Capaci siano intervenuti anche uomini estranei alla mafia.

Ma in Italia i poteri occulti vengono spesso, se non addirittura sempre, minimizzati ad arte.

Dire che la strage di Capaci possa essere stata una strage di Stato potrebbe sembrare ardito, ma comunque il mistero si va ad aggiungere ai tanti misteri che arricchiscono la storia d’Italia.

Alberto Zanini

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