Intervista: Andrea Imperiali autore de: Il figlio ultimo – Robin edizioni

Intervista: Andrea Imperiali autore de: Il figlio ultimo – Robin edizioni

Andrea Imperiali

Abbiamo da poco recensito il romanzo: “Il figlio ultimo” – Robin edizioni di Andrea Imperiali e ora abbiamo il piacere di scambiare con lui quattro chiacchiere.

  • Ciao Andrea Imperiali, grazie per essere passato a trovarci, possiamo darci del tu ?

Ciao Sandra, volentieri. Come potrei dare del lei a chi ha letto il mio romanzo ed è entrata in sintonia e intimità con tanti miei pensieri?

  • Dalla tua biografia vedo che sei nato a Napoli, la domanda è obbligatoria quanto scontata, c’è qualcosa di autobiografico nel tuo romanzo?

Qualcosa di autobiografico c’è, e sono le due location principali: la cosiddetta Napoli bene in cui sono nato e cresciuto e la Milano delle agenzie pubblicitarie che mi ha dato tante gratificazioni professionali. Ispirarmi liberamente a situazioni viste con i miei occhi, ascoltate con le mie orecchie in contesti e momenti storici che ho vissuto in prima persona mi ha consentito di inventare una storia, a quanto pare abbastanza verosimile non essendo stata tu l’unica a farmi questa domanda! D’altra parte, “Il figlio ultimo” non è certo un romanzo autobiografico. Forse potrebbe avvicinarsi a un romanzo generazionale. Le contraddittorie emozioni e le vicissitudini, un po’ pazze e spesso dolorose, dei vari personaggi le ho infatti immaginate come plausibili ed estreme conseguenze di un disagio realmente vissuto da gran parte della mia generazione dagli anni Ottanta agli anni Zero. Ragazze e ragazzi arrivati tardi per partecipare alle contestazioni del secolo scorso, di cui avevano da adolescenti respirato e assorbito i fervori, che poi sono cresciuti in bilico tra aneliti di libertà illimitata, derive autodistruttive e scelte individualiste, inseguendo trasgressioni e carriere per ritrovarsi adulti senza aver quasi mai fatto sentire le loro voci, spesso sovrastate non solo da quelle di chi ci ha preceduto ma anche da quelle di chi è arrivato dopo di noi. Oggi forse qualcosina sta cambiando, ma quando cominciai a scrivere il romanzo mi aveva colpito che in Italia fossimo passati direttamente da Berlusconi, Prodi, D’Alema e Fini ai giovani Renzi, Salvini e Di Maio. Mi domandai perché la mia generazione fosse rimasta quasi tutta silenziosa, invisibile, alla larga dal potere e dalle responsabilità.

  • L’idea delle struttura a doppio filo è geniale, come si procede con la stesura di un romanzo così fatto?

Hai colto nel segno! È stato l’aspetto che si è rivelato più difficoltoso nella scrittura del romanzo. L’alternanza tra due piani temporali e due distinte linee narrative da ricongiungere nell’ultimo capitolo mi era presto sembrata una buona idea su cui lavorare, ma per approdare a un risultato soddisfacente ho avuto bisogno di molto tempo e tante stesure. Avevo cominciato scrivendo i capitoli delle due linee separatamente per non perdere il filo nella costruzione delle due storie parallele e del carattere dei protagonisti. Poi, stesura dopo stesura, revisione dopo revisione, ho fatto del mio meglio per intrecciarli e amalgamarli in un’unica storia.

  • Se non c’è nulla di autobiografico, perché hai scelto Milano come seconda location del tuo romanzo?

La conoscenza diretta della cosiddetta Milano da bere, cui ho accennato prima, non è stata il motivo della scelta, ma soltanto lo strumento che mi ha aiutato a descriverla in modo più verosimile. Negli anni Ottanta Milano era la città ideale per offrire una seconda possibilità, una città ottimista e aperta a chiunque avesse voglia di lavorare. Ho pensato che potesse funzionare bene in antitesi alla Napoli fatalista e chiusa dal sistema delle raccomandazioni e dei diritti acquisiti. A Milano a quel tempo c’era una vera meritocrazia che, da una parte, permetteva a tutti di provare a esprimersi creativamente e realizzare un sogno professionale e, dall’altra, rendeva le relazioni sociali piuttosto fredde e competitive.

Credi che la Napoli di ora sia tanto diversa da quella degli anni 80?

Credo che le ipocrisie e gli atteggiamenti elitari siano purtroppo ancora presenti nei salotti e nelle torri d’avorio della Napoli bene, anche se ridimensionati dai ricambi generazionali. Più in generale, la città è molto migliorata: certamente più vivibile, evoluta e persino più bella di allora. Dopo quarant’anni, tutta la società italiana si è trasformata. Anche Milano è cambiata: meno focalizzata sul business, non offre più ai giovani le opportunità degli anni Ottanta e, forse anche per questo, è meno spensierata e superficiale. La mia sensazione, vivendole entrambe, è che in questi decenni Napoli e Milano si siano avvicinate sempre di più in una sorta di processo di omologazione e globalizzazione made in Italy. Solo un esempio: prima della pandemia, erano diventate due divertimentifici molto simili che attiravano milioni di turisti: una dimensione inimmaginabile per entrambe le città negli anni 70 e 80! A Napoli, i Quartieri Spagnoli e molte zone popolari del centro storico che ho descritto nel romanzo erano – mi riferisco sempre a prima della pandemia – ogni sera affollati con bar e ristorantini di ogni tipo frequentati da persone provenienti anche da altre zone della città, dell’Italia e del mondo: un costante e tranquillo viavai davvero impensabile nelle sere degli anni Ottanta.

Dal tuo romanzo “la famiglia” del sud non esce con un’immagine troppo lusinghiera, è quindi uno stereotipo immaginato al nord quello che le famiglie “meridionali” son molto unite, o nel tuo romanzo hai raccontato l’eccezione?

Provando a generalizzare categorizzando per stereotipi, operazione sempre pericolosa, invece di distinguere le famiglie tra meridionali e settentrionali, le distinguerei tra felici e infelici, le seconde “ognuna a modo suo”, come scrisse Tolstoj. Le famiglie infelici ci sono ovunque e quindi anche a Napoli. E succede spesso, a ogni latitudine, che le più disunite, anaffettive e disfunzionali siano quelle più ricche dove il dialogo scarseggia e i segreti, i cosiddetti panni sporchi, non mancano quasi mai generando silenzi e sofferenze, di cui talvolta il prezzo emotivo più alto è pagato dagli ultimogeniti, come nella famiglia de “Il figlio ultimo”.

Andrea Imperiali hai già in mente qualche altra storia? Possiamo sperare in un seguito de: “Il figlio ultimo” che appaghi del tutto la curiosità del lettore?

Quando ho consegnato il manoscritto de “Il figlio ultimo” davo per scontato che la storia di Tommaso e Renato dovesse finire lì. Invece, sono stati in tanti, tra coloro che l’hanno letto, a manifestarmi questa curiosità e, in sostanza, a chiedermi “e poi cosa succede?”. Quindi sì, non posso non pensarci. L’esperienza di questo romanzo mi ha però insegnato che ci vogliono tempo e sacrifici per trasformare una storia che gira vagamente per la testa in una storia compiuta. Di suggestioni ne ho tante ma, almeno nel mio caso, hanno bisogno di sedimentare a lungo.

 

Ringraziamo Andrea Imperiali per la disponibilità, arrivederci a presto sulle pagine de I gufi narranti.

 

Sandra Pauletto

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