Intervista ad Alberto Minnella – L’amore è tutto qui – Bertoni editore

Intervista Alberto Minnella

Minnella
Alberto Minnella

La Sicilia, splendida terra pregna di storia e capolavori d’arte, è sempre stata anche ricca di scrittori e poeti.

Ad Agrigento sono nati Pirandello, Sciascia, Camilleri e Alberto Minnella, un giovane scrittore che fa parte di una nutrita e interessante “nouvelle vague” di autori noir siciliani.

Alberto Minnella è uno scrittore e musicista che ha vissuto a Siracusa ma adesso risiede a Catania. Ha lavorato come giornalista per “Il Giornale di Sicilia” e “Il Corriere di Sicilia”, ha studiato musica moderna a Parigi all’accademia di batteria Dante Agostini.

Minnella insieme a Rosario Russo, Sebastiano Ambra e Gaudenzio Schillaci ha dato i natali, nel marzo del 2020, al collettivo “SiciliaNiura”, che si pone come obbiettivo raccontare la Sicilia tramite il giallo/noir.

Minnella scrive il suo primo romanzo giallo nel 2013: “Il gioco delle sette pietre”, seguito nel 2015 da: “Una mala jurnata per Portanova” e nel 2016: Portanova e il cadavere del prete” Tutti pubblicati dai Fratelli Frilli.

Nel 2019 Bertoni Editore pubblica: “L’amore è tutto qui”

D: Il tuo ultimo romanzo: “L’amore è tutto qui” riprende il titolo di una canzone di Piero Ciampi.

Poeta e cantautore controverso, anarchico, collerico e dedito all’alcol, una sorta di homeless della musica italiana che lo ha spinto anche a vagabondare in giro per l’Europa“Sono uno strano uomo che può frequentare solo te. Abbracciami”

Qualcuno lo ha definito: “Cantautore della mediocrità umana”.

Trovi che la sua eterna battaglia contro l’indifferenza della vita si ravvisi anche nel tuo romanzo?

Il perno centrale di tutto il romanzo è l’indifferenza di una madre che non è mai riuscita a spingersi verso il proprio figlio, a rinunciare a qualcosa di sé per darsi, per donarsi. Il titolo scelto, in questo caso, è da declinarsi proprio in questo modo.

D: Credi che il giallo si possa prestare anche per affrontare approfondimenti come hai fatto tu nel tuo romanzo?

Voglio riprendere una frase scritta da Carlotto qualche tempo fa su Robinson: il giallo ormai si è divincolato dalle catene del topos ed è oggi una narrativa a sfondo criminale. Questa lucida interpretazione di ciò che è diventato oggi il giallo è vera verità. Lo è perché, come la narrativa, il giallo può e deve essere solo una fra le possibili chiavi di lettura della realtà, della politica, della società, dell’amore. Così è per la fantascienza, l’horror, il thriller, ecc…

D: Non ci sono eroi nel tuo romanzo, anzi, tratteggi una società mediocre dove alcuni manifestano imbarazzo e altri sono come le due facce di una moneta; doppia personalità malate, comportamenti discutibili ed illegali, dipendenza dal gioco e infelicità mascherata da gentilezza e falsi sorrisi.

Situazioni che stigmatizzi nel tuo ultimo lavoro.

Desideravo raccontare una storia d’amore. Ma man mano che i personaggi si facevano spazio fra le maglie dell’intreccio, mi costringevano a seguirli in un labirinto di errori, delusioni, sensi di colpa, vizi, violenza… E ogni cosa era tenuta a bada dalle bugie, dal dirsi e dal raccontare bugie. Così l’amore che volevo raccontare, o meglio, la mancanza d’amore, è diventato qualcosa di complicato e passava sempre attraverso i loro sbagli e via via fino all’ultima pagina.

D: L’ispettore Cannavò rappresenta lo stereotipo del poliziotto pronto ad abusare del manganello.

Il rock degli anni ’70 lo faceva sentire un detective all’americana, di quelli duri, cinici e tanto stereotipati”.

Ma Cannavò si rivela alla fine un povero diavolo, un buon poliziotto e contribuisce fattivamente alla soluzione del caso collaborando con Nicola e Valentina. E’ stata una sorta di rivalutazione da parte tua?

Credo che Cannavò non abbia mai smesso, nemmeno all’ultima pagina, di essere un poliziotto dai modi spicci, nostalgico di un certo modo di fare polizia, per fortuna scomparso. C’è però da dire che ogni personaggio, Cannavò compreso, deve fare i conti con l’amore. Allora è bene ricordarsi che l’amore agisce spesso in due modi: o migliora o peggiora le persone. Nel caso di Cannavò, alla fine, quando si ritrova a quattrocchi con il suo vecchio amore, l’amore lo costringe a diventare una persona migliore. Ma non scommetterei un penny sul cambiamento definitivo di Cannavò.

D: Parli di amore interrotto, di difficoltà a farsi accettare, di carenza affettiva della figura materna e di disagio sociale.

Francesca alla fine chiosa, da innamorata, che basta poco per essere felici: “L’amore è il perdonarsi, L’amore è tutto qui”e non occorre altro.

Francesca è una donna come poche. Anzi, è proprio un essere umano raro. Ha amato quello che ha studiato, ama il suo lavoro, ama le persone che la vivono. Questo non vuol dire che sia anestetizzata dal male del mondo, ma lo scarta, lo dribbla con il suo serbatoio di valori e principi morali inscalfibili. Quindi per lei amare, visti gli errori che tutti commettiamo, è il chiedere scusa, il passare oltre, il metterci una pezza sopra. Non far pesare, ma andare avanti. Senza rancore. È questo che vuole suggerire a Nicola. Gli suggerisce di perdonare, cioè gli vorrebbe passare l’amore che insegnano le madri. Ecco, Francesca perdona perché è amore di madre.

D: Nel romanzo accompagni il lettore alla scoperta di alcuni aspetti storici di Siracusa e di Catania, città che conosci molto bene. Per Cannavò “la terra di Archimede, in confronto a Catania era una baita felice” salvo ricredersi poco dopo: “Solo a quel punto gli fu chiaro che non c’era alcuna baita felice, ma un unico mondo di merda”

Hai vissuto a Siracusa e adesso a Catania, che differenze trovi tra le due città?

Le due città hanno evidenti ritmi diversi. Siracusa è una città molto più lenta. Anche il bioritmo è diverso. Ho vissuto in altre città, come Palermo e Parigi, ma solo a Siracusa si ha l’impressione che l’unico modo che si ha per riempire il vuoto dell’esistenza è convivere con il vuoto, farselo amico, raccontarlo. La cosa però interessante è che entrambe le città, Catania e Siracusa, sembrano assomigliarsi, sia per una questione di lingua, tolta la cadenza, sia per quel profondo senso di rassegnazione che anziché invitarci a cogliere i frutti maturi, ce li lascia cadere marci per terra. Questo, però, è un tratto che unisce un po’ tutta la Sicilia: a capacità di aspettare e di osservare il marcio. Per fortuna non tutti sono così e in questa terra c’è chi si spinge a sovvertire tutto e a non volersi rassegnare a niente. Lo si fa con la scrittura, con la musica, il teatro e impegno sociale.

D: Nella cucina di Mimì, appesi fanno bella mostra dei piatti che raffigurano le 4 stagioni. Anche nei romanzi che hai scritto hai raccontato Siracusa in tutte le stagioni. Qual è quella che  fa sentire Alberto Minnella a suo agio?

La storia dei piatti delle quattro stagioni è curiosa. È venuta fuori dal baule dei ricordi mentre scrivevo. Nella casa dei miei genitori c’è sempre stata tetralogia raffigurante le stagioni e inconsciamente la ma sono portata dappresso ogni volta. Con Portanova l’ho usata per scandire il tempo narrativo, dedicandogli un romanzo a stagione (quasi). Io, in realtà, le vivo bene tutte. Sono nato in autunno, quindi io respiro quando vedo il mare arrabbiato impennarsi davanti alla costa, quando piove e oltre al cappotto bisogna andar in giro con l’ombrello (rischiando una tendinite, nel mio caso), sigaro o pipa fra i denti e quando è possibile far musica e suonare dentro ai club. Ma devo confessare che l’odore dell’estate in Sicilia è unico; se ti affacci senti l’odore della sabbia e della salsedine anche se sei a un chilometro dal mare. Il corpo si rilassa automaticamente. Cambiano i respiri, ti si rivoltano i sentimenti. Senti che il caldo e l’afa hanno smussato gli spigoli e ti dimentichi di tutto, e come un rabdomante via a cercare l’acqua, il mare. È irresistibile, è più forte di me. Quindi sono un tipo anche estivo, nella misura in cui “estivo” voglia dire gettarsi in acqua nel posto più isolato possibile, senza nessuno che ti parla all’orecchio, con il caldo che mi scioglie l’ansia, l’inadeguatezza.

D: Gli odori del cibo sono ormai un tuo marchio di fabbrica e anche in questo romanzo citi cibo da strada assolutamente invitanti; la carne di cavallo sfrigolante sulla griglia, la salsiccia, le polpette, gli involtini di pistacchio, ma anche gli odori che si sprigionano dalla cucina di Krsna.

Che rapporto hai con il cibo?

Per me il cibo è sinonimo di vita. Perché al cibo è legato alla cucina delle nonne, delle madri, di mia madre. Il cibo è amore materno. Sul cibo posso litigare. Ma non parlo di quantità, ma di qualità. Non mangio molto, ma voglio mangiare come dico io. Quindi non è raro che mi metta ai fornelli.

Il cibo è tutto; dal cibo passa la cultura di un popolo e dal gusto e dalla serietà impiegata nel prepararlo possiamo capire quanta passione e quanto amore quel popolo è capace di esprimere.

Gli inglesi mangiano male perché non sono stati amati abbastanza. Si salvano solo per la birra. (ovviamente è una battuta; cari inglesi, non mi odiate, stavo scherzando, God bless you!)

igufinarranti ringraziano Alberto Minnella per questa piacevole chiacchierata.

Rinnovano l’invito alla prossima uscita, che sembra avrà nuovamente il commissario Portanova come protagonista.

Alberto Zanini

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