Intervista a Vincenzo Maimone – La distanza più breve –

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Vincenzo Maimone è nato a Messina dove si è laureato in Filosofia presso l’Università degli Studi. Ricercatore in Filosofia politica presso il dipartimento di Scienze Politiche e Sociali dell’Università di Catania, ha scritto diversi saggi e articoli pubblicati su riviste scientifiche.

Nel 2009 è uscito il primo giallo dedicato al commissario Giacomo Costante e al docente di filosofia Tancredi Serravalle.

 

                                    Intervista a Vincenzo Maimone – La distanza più breve – di Alberto Zanini

 

D: “La distanza più breve” riprende il filo lasciato da “Sicilia terra bruciata” del 2016. Nell’aria aleggia ancora il ricordo dell’odore di bruciato, in seguito all’esplosione, della vettura di Tancredi. Nel tuo nuovo romanzo ritroviamo il predatore serial killer, indomito a continuare la sua vendetta personale. Mi sembra di ravvisare una sfumatura della brutalità dell’assassino, riscontrata nel precedente romanzo, privilegiando la costruzione psicologica ai personaggi. È una scelta consapevole?

 

R: Innanzitutto vorrei ringraziarti per questa intervista e per l’attenzione riservata nel corso di questi anni ai miei romanzi. Mi fa davvero piacere che tu abbia notato questa sfumatura. Si tratta di una scelta lungamente ponderata. In “Sicilia terra bruciata”, infatti, il ruolo di Gregorio era quello del predatore puro. La sua invisibilità, l’essere un individuo assolutamente anonimo, costituiva il suo punto di forza e gli assicurava un vantaggio di minaccia nei confronti delle vittime da lui prescelte. Le sue azioni erano condizionate dal desiderio di vendetta e dal bisogno di riscattare in qualche maniera il suo fallimento esistenziale. L’epilogo tragico del precedente romanzo rappresentava, almeno in apparenza, il suo trionfo, il compimento della sua missione. In questa nuova storia, assistiamo alla scoperta di come la vita di Gregorio sia solo una sequela di promesse mancate, di atti incompiuti. E tale rivelazione, improvvisa e sconvolgente rende meno lucide e meno distaccate le sue azioni. È una crudeltà dettata dalla disperazione e dall’urgenza di giungere ad una conclusione. Inoltre, questa volta le sue vittime sono più consapevoli e attente. Gregorio non è più un predatore puro ma, gioco forza, è diventato anche lui una preda.

 

D: Il rapporto tra i due personaggi, nato dieci anni fa con la prima avventura “Un nuovo inizio” e proseguito negli anni successivi, in questa tua ultima fatica letteraria sembra debba fare i conti con la vicenda drammatica e con i sensi di colpa. Cosa comportano i ruoli complementari di Costante e Serravalle nella costruzione del romanzo?

 

R: In questa storia il rapporto complementare tra i due protagonisti costituisce il pilastro portante. Serravalle e Costante hanno lasciato che i rispettivi drammi, uno spesso velo di parole mai pronunciate e di chiarimenti sempre rimandati sedimentassero e costruissero attorno al loro legame un muro di silenzio. Costante porta dentro di sé il peso e il dubbio di non aver svolto con la dovuta attenzione le sue indagini. Tancredi, dal canto suo, si ritrova a dover rimettere a posto ciò che è rimasto della sua vita e a dover gestire il trauma subito dalla sua bambina. Entrambi sono animati da una voglia di riscatto, di giustizia e per poterla perseguire avranno bisogno l’uno dell’altro.

 

D: Entrambi i personaggi principali hanno avuto esperienze drammatiche. Li hai voluto rendere più

vicini alla vita reale che a volte non accetta sconti?

 

R: Credo che la forza intrinseca del noir sia la capacità di fotografare la realtà senza ipocrisie. I miei personaggi, tutti i miei personaggi, sono individui ordinari, normali, ai quali accade di essere coinvolti, per professione o per mero accidente in circostanze eccezionali. Quello che a me interessa rappresentare è il modo in cui personalità distinte, con differenti approcci alla vita, differenti modi di interpretarla e condurla, affrontano le quotidiane sfide dell’esistenza. La singolarità di un soggetto si esprime proprio in tal modo, ovvero, nella maniera in cui ciascuno risponde e reagisce alla estrema variabilità dell’esistenza. Di fronte a queste sollecitazioni, a queste continue aggressioni è possibile opporsi cercando di mantenere equilibrio e ragionevolezza o cedendo allo sconforto. È la natura della risposta a simili sollecitazioni non è mai univoca. Il confine tra una reazione “normale” e una “patologica” è estremamente sottile. È in questo territorio di frontiera, ad esempio, che ho deciso di collocare Tancredi Serravalle. È da qui che si snoda la vicenda raccontata nelle pagine de “La distanza più breve”.

 

D: La società contemporanea mi sembra faccia fatica a trovare la via del miglioramento, ma è un continuo commettere i medesimi errori del passato?

 

R: C’è una descrizione kantiana circa le caratteristiche della natura umana che mi piace ricordare. Secondo il filosofo di Königsberg, da un “legno storto qual è quello dell’umanità, è assai difficile poter ricavare qualcosa di interamente diritto”. Mi sembra una definizione che, con un buon grado di approssimazione definisca in maniera corretta i limiti intrinseci della natura umana.

Abbiamo vissuto, durante questi mesi, una situazione che ha sconvolto letteralmente la nostra esistenza. Abbiamo sopravvalutato il nostro livello di benessere a tal punto da aver dimenticato le nostre fragilità. Ci siamo scoperti vulnerabili e la cosa ci ha letteralmente messo a terra. Ma ciò non vuol dire che abbiamo tratto un qualche insegnamento o che ne usciremo degli individui migliori. Personalmente, diffido da ogni ottimistica previsione in tal senso. Quando la normalità e la consuetudine torneranno ad avere il sopravvento, fingeremo (ingannando noi stessi e gli altri) che tutto ciò non sia mai accaduto. Nel frattempo, c’è già qualcuno che ha ricominciato ad alimentare il fuoco della paura, della diffidenza e dell’odio.

 

D: A parte un brevissimo sconfinamento al nord, nel romanzo “La variabile Costante”,  ambienti tutte le tue storie nella città barocca di Acireale, dove oltre alla trama tipicamente gialla tratteggi con puntualità la realtà politica conservatrice, strenuamente ostile ai cambiamenti e connivente con il fenomeno subdolo della mafia, non più rappresentato dalla immagine stereotipata che conosciamo, ma ormai sostituito dalla figura di giovani con il master in economia conseguito nelle università più accreditate del mondo. Il grande scrittore Leonardo Sciascia disse: Non si può capire l’Italia se non si capisce la Sicilia”. È realmente così?

 

R: Credo che Sciascia abbia colto nel segno. La Sicilia è una realtà variegata e complessa sotto differenti punti di vista: geografici, antropologici, linguistici. Il meticciato culturale è la cornice entro cui si è sviluppata la storia di questo ampio e diversificato territorio. E tale storia non può essere compressa e relegata ad una raffigurazione macchiettistica o essere considerata come il frutto di stereotipi stantii e privi di sostanza. Molti osservatori disattenti, anche di origine siciliana va detto, abbozzando una descrizione di questa terra, continuano a utilizzare una focale monocromatica che impedisce di coglierne tutte le nuances e il reale spessore. Questo atteggiamento produce effetti negativi anche, e forse soprattutto, quando ci si soffermi sul fenomeno mafioso, trascurandone la pervasività e considerandolo esclusivamente come circoscritto entro i confini regionali. La mafia è ormai distante anni luce da quell’immagine falsamente romanzata che sovente ci viene propinata. La mafia è perfettamente integrata nell’economia globale, una holding finanziaria in grado di conquistare ampie fette di mercato anche grazie all’accondiscendenza delle istituzioni politiche: alleggerire i controlli nella concessione degli appalti, ad esempio, come inopportunamente proposto da alcuni politici affezionati più al mojito che al popolo italiano, costituisce uno dei più grandi regali che possano essere fatti alla criminalità organizzata. Nel mio romanzo questo aspetto viene affrontato, non perché essendo un romanzo siciliano sia indispensabile introdurre l’elemento mafioso, ma perché il mio obiettivo era quello di fornire un’immagine attualizzata e realistica del paese.

 

D: Come mai hai deciso di affiancare Serravalle con un demone socratico?

 

R: Il demone socratico rappresenta la voce interiore, la coscienza di Serravalle. Uno sboccato grillo parlante la cui funzione è quella di evitare le trappole dell’ipocrisia e della convenienza. In questo romanzo, poi, il demone socratico svolge un ruolo fondamentale. Egli è l’ancora di salvezza in grado di salvare Tancredi dall’apatia e dallo sconforto. Lo si capisce già dal primo rigo del romanzo che la sua presenza sarà, in questa storia, particolarmente ingombrante. La funzione del demone è quella di trasformare i soliloqui del protagonista in dialoghi utili a smuovere le acque ferme dell’esistenza di Serravalle e a stimolarne le intuizioni.

 

D: L’uso del dialetto siciliano arricchisce le storie, come faceva il Maestro Camilleri. Personalmente piace perché serve anche per allentare la tensione di certe situazioni. Non temi che a qualcuno possa impedire la fruizione delle tue opere?

 

R: Sinceramente, non mi sono mai posto la questione. Sia perché nelle mie storie il dialetto è presente a dosi moderate e assolutamente compatibili con la fruibilità del lettore alto-atesino. Non si tratta di forme dialettali strette e incomprensibili (il bergamasco presenta maggiori difficoltà interpretative), ma di un dialetto intuitivamente decifrabile.

In secondo luogo, la sua funzione è quella di connotare in modo preciso il senso di una frase dandole la giusta coloritura e il giusto peso. Il siciliano è un dialetto che possiede un’innata saggezza e una evidente profondità simbolica. Si tratta di un valore aggiunto che non può essere trascurato nella stesura di una storia.

 

D: In passato hai affrontato anche il tema del razzismo e dell’intolleranza. Ma sembra che niente sia cambiato. È un problema legato alla politica dell’odio che oggi si riscontra specialmente sui social?

 

R: Stiamo assistendo ad un pernicioso arretramento culturale, o forse, ed è una lettura ancora più pessimistica, ci eravamo illusi che alcune forme di violenza e di intolleranza fossero solo un ricordo passato. La morte di George Floyd ha squarciato il velo, rivelando il volto dell’America di Trump. Lo scivolamento lungo questa china involutiva ha parecchi responsabili. La politica è certamente tra questi. L’odio è un meccanismo estremamente efficace nella costruzione del consenso e nella catalizzazione di un interesse, per così dire, collettivo. La vecchia logica di additare un nemico (chiunque esso sia) continua a riscuotere successo. Fomentare odio, insicurezza e la paura dell’Altro, è la strategia preferita da sedicenti uomini della provvidenza. L’odio è una passione semplice, immediata, che rifugge da analisi, coerenza logica e da qualsivoglia strumento cognitivo in grado di pesare e valutare correttamente le ragioni degli altri. Sarebbe tuttavia, sbagliato attribuire ai social la colpa di tutto ciò. I social network sono strumenti attraverso i quali è possibile condividere punti di vista e opinioni, ma non possiedono una coscienza propria. La validità e l’efficacia dello strumento è direttamente connessa alla capacità di comprensione e di analisi di colui che ne fa uso. In tal senso, l’istruzione e l’attenzione verso la verità e la coerenza logica costituiscono degli antidoti all’idiozia dilagante e all’accondiscendenza passiva nei confronti di fenomeni da baraccone che si spacciano da statisti. Credo che non si debba mai temere di contestare opinioni strampalate e false spiegazioni. Ai miei studenti del liceo e, ancora oggi, durante le mie lezioni all’università, ricordo che è un diritto, ma anche un dovere, degli studenti quello di “pretendere” dai loro insegnanti spiegazioni chiare e esaurienti. Non esistono domande che non si possano fare. Non esistono domande stupide, ma molto spesso sono le risposte ad essere assolutamente inadeguate.

 

D: Il romanzo giallo ha assunto, ormai, a tutti gli effetti un ruolo letterario specifico dove emergono le problematiche della condizione umana. Vuol dire che gli scrittori, ma specialmente i lettori, apprezzano storie di evasione ma anche di approfondimenti psicologici?

 

R: Sono sempre molto scettico riguardo alla catalogazione dei generi. Le etichette sono utili per ordinare degli scaffali, ma sono assolutamente irrilevanti per definire la natura di una storia. Personalmente, ritengo che esistano storie belle e storie brutte. Una bella storia, una di quelle che merita di essere ascoltata e narrata prescinde dal genere, dall’adesione ad uno stile o ad una predeterminata corrente letteraria. Il modo migliore per rovinare un racconto è vivisezionarlo e trasformarlo in una sterile analisi sullo stile. La lettura ha il potere di aprire la nostra mente su mondi nuovi e di creare connessioni e legami. Quando leggiamo un libro, quando ci lasciamo trascinare dal flusso delle parole stiamo condividendo esperienze e punti di vista. E ciò è più che sufficiente a renderci persone sicuramente migliori, perché curiose, attente e capaci di immedesimarci, metterci nei panni degli altri. E così facendo scoprire qualcosa in più su noi stessi.

 

I gufi narranti ringraziano Vincenzo Maimone per la gentile disponibilità.

 

 

 

Intervista raccolta da Alberto Zanini

 

 

 

 

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