Intervista a Ilaria Mainardi – La quarta dimensione del tempo

Intervista a Ilaria Mainardi – La quarta dimensione del tempo

Abbiamo da poco recensito il volume La quarta dimensione del tempo edito da Les Flaneurs e ora scambiamo quattro chiacchiere con l’autrice Ilaria Mainardi.

Buongiorno Ilaria, grazie per aver accettato l’intervista, mi permetto, se sei d’accordo, di darti del tu…

 

  • Essendo la prima volta che ci incontriamo, ci piacerebbe sapere un po’ chi è Ilaria Mainardi donna e chi Ilaria Mainardi scrittrice. Puoi farci un tuo ritratto per conoscerti meglio?

Intanto piacere di conoscerti, David: certo, il tu va benissimo!

Sono nata a Pisa e ancora risiedo nella mia piccola città. Tuttavia, come ho scritto nella biografia del romanzo, per viaggi mentali sono decisamente cosmopolita! Ciò deriva anche dalla mia grande passione per il cinema, tema che credo ricorrerà spesso nel corso della nostra chiacchierata. Alla cosiddetta settima arte, sono legati il mio essere la persona che sono e anche, in un certo senso, la passione per la scrittura. Quando scrivo infatti vedo il mio film impossibile, quello che, nel sogno che è forse utopia, potrebbe (o dovrebbe!) essere tratto dalle mie parole. Immagino il cast, la regia, addirittura penso alle inquadrature!
Ecco, sì, se c’è un fil rouge nella mia esistenza, questo è proprio il cinema, visto in sala, meglio da sola, in un orario di ridotta affluenza, per gustarne la magia, ma anche la concretezza. Il fotogramma è pieno, saturo, ma allo stesso tempo cela infiniti mondi. L’arte alla fine è anche questo: l’uno, l’opera, e una moltitudine di emozioni e significati, diversi per ciascuno, per colore e intensità.

In un certo senso, anche noi, come esseri umani, siamo un po’ così, e credo che in ciò risieda il nostro legame non recidibile con le arti. Citando Walt Whitman: siamo vasti, conteniamo moltitudini.

 

  • Il tuo romanzo, La Quarta Dimensione del Tempo (Les Flaneurs Edizioni), è ambientato negli Stati Uniti D’America, come mai questa scelta?

 

Torniamo subito all’argomento che, come immaginavo, ci avrebbe fatto compagnia durante questa intervista. Il romanzo è ambientato negli Stati Uniti perché quello è il territorio del sogno cinematografico per eccellenza: il cinema, la più grande passione, la fucina di ogni mio sogno. Infatti è proprio in quei luoghi, scrutati con l’alterità curiosa e pudica di una straniera, che la mia immaginazione si è forgiata: da John Ford a Sam Peckimpah, da Quentin Tarantino ai fratelli Coen, da Don Siegel a Martin Scorsese. E ancora, da Sergio Leone a Martin McDonagh, quest’ultimo regista, sceneggiatore e grande drammaturgo (prima di tutto), che americani non sono, ma a un certo modo di narrare hanno saputo o sanno rifarsi assai bene.  

Ogni cosa che ho scritto alla fine è stato questo: la mia grande fame di cinema, una fame per statuto inappagata e inappagabile.

 

  • Nel leggere il tuo romanzo ho avuto l’impressione di trovarmi ad affrontare un viaggio che poi erano più viaggi. Oltre al viaggio fisico, da New York al Missouri, ho apprezzato molto il viaggio più interiore, il viaggio dell’anima, il viaggio alla scoperta del proprio io più profondo, il viaggio alla ricerca di quel passato lasciato sospeso. Come è nata l’esigenza di raccontare questo tipo di storia?

È corretto quello che osservi. Nel romanzo vi sono almeno due viaggi: uno fisico, che consiste in un vero e proprio tragitto da New York verso una cittadina immaginaria del Missouri, e uno emotivo, introspettivo, alla ricerca di qualcosa che forse non è andato perduto per sempre, se si riesce a ritrovare, da qualche parte, quei frammenti di umanità congelata. I personaggi che ho provato a tratteggiare nel mio romanzo sono, in un modo o nell’altro, degli sradicati, raminghi, per scelte avventate, per sensi di colpa mai sopiti o più semplicemente per destino, nel viaggio dei viaggi: l’esistenza. Un personaggio a cui sono molto legata, Gus Hart, è la summa strampalata di ciò che intendo dire: per alcuni potrebbe figurare quasi come un mostro (ma l’etimologia ci dice che il primo significato di “monstrum” è prodigio), eppure in controluce vediamo in lui il portato di una grande, fragilissima umanità.

Il tono che ho scelto di usare vira dal malinconico al comico perché, attraverso il

confronto tra queste due istanze, mi sembrava si potesse trovare un maggiore equilibrio narrativo. Come anticipavo, adoro i fratelli Coen e Martin McDonagh, grandi scrittori umanisti – più disincantati, forse cinici, i primi, più pinteriano, il secondo – prima ancora che grandi registi. A loro, ovvero a due tra i maggiori registi americani in attività e al più grande drammaturgo vivente in lingua inglese, secondo la mia opinione, idealmente ho voluto dedicare questa piccola storia.

A loro, ancora più idealmente, sogno, un giorno, di poterla far leggere.

 

  • Ci racconti alcune delle mille sfaccettature di un paese complesso come gli USA. Che rapporto hai con questo contraddittorio paese?

Il mio rapporto con gli Stati Uniti, almeno dal punto di vista che più mi interessa, è ancora una volta legato alla storia del cinema, che poi non è slegata dalla Storia tout court, naturalmente. L’arte ha una straordinaria capacità di fare, come si suol dire, di necessità, virtù. E dunque, in quel Paese che si nutre delle sue stesse contraddizioni, in un film come A Streetcar Named Desire (Un tram che si chiama Desiderio), girato nel pieno vigore del cosiddetto Production Code, la brutalità non rappresentabile dell’assalto sessuale alla povera Blanche diviene la scissione feritrice del vetro, prima quello di un coccio di bottiglia e in seguito quella di uno specchio in frantumi che “raccoglie” il volto della donna inerme. Nella scena successiva, vediamo qualcuno – un qualcuno non inquadrato integralmente – intento a pulire una strada: l’acqua non purifica tuttavia la colpa che si è consumata davanti ai nostri occhi, non così innocenti come ci piacerebbe credere.

 

  • Hai costruito molti personaggi davvero interessanti dando ad ognuno dei tratti caratteriali e psicologici molto peculiari. Come sono nati, da dove hai tratto l’ispirazione per crearli?

Come spesso mi accade, sono delle immagini, in questo caso dei particolari di volti e corpi, ad aver ispirato la storia che ho cercato di raccontare. Sono gli attori e la loro capacità di sublimare la vita nella tecnica recitativa ad aver attratto in modo particolare la mia attenzione. Gli sguardi – unici, nel loro genere – di Sam Rockwell e di Benicio Del Toro, il naso all’insù dell’irlandese Farrell, la mascella contratta di Frances McDormand, il sorriso imperfetto di Woody Harrelson, la chioma di Meryl Streep e le labbra di Oscar Isaac, la fronte di Bruce Dern  sono solo alcune delle suggestioni che mi hanno guidato nella stesura. Ci sono volti e corpi, permeati di talento, che sprigionano un’energia che investe chi ha il privilegio di guardare. Questi interpreti meravigliosi – questi e altri – sono fatti di carne e creta , e ogni cosa sembra possibile quando li si osserva, persino che la scena non finisca entro i limiti fisiologici del quadro.

 

Ringraziamo Ilaria Mainardi per avere risposto alle nostre curiosità. Arrivederci a presto sulle pagine de I gufi narranti!

 

David Usilla

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