Intervista a Dario Bevilacqua – Nel labirinto dell’odio” – Dialoghi edizioni

Intervista a Dario Bevilacqua – Nel labirinto dell’odio” – Dialoghi edizioni

Dario Bevilacqua

Abbiamo da poco recensito “Nel labirinto dell’odio” (Dialoghi) di Dario Bevilacqua e abbiamo ora la possibilità di scambiare quattro chiacchiere con lui per parlare del suo ultimo libro, farci raccontare qualcosa di lui e dei suoi futuri progetti

Buongiorno Dario, se non è un problema ti darei del tu. Intanto grazie per aver accettato di chiacchierare con noi.

  • E’ la prima volta che ti recensiamo e che quindi abbiamo il piacere di intervistarti. Ci piace sempre conoscere oltre all’artista, anche l’uomo che dietro di esso si cela. Ci puoi raccontare qualcosa di te, della tua vita al di là della scrittura?

Beh, che dire, diciamo che nel romanzo c’è molto della mia vita recente, soprattutto in quella ricerca di trovare il mio posto nel mondo, combinando sentimenti, aspirazioni e necessità. Ho lavorato per tanti anni nella pubblica amministrazione, ma mi sentivo frustrato, sapevo che potevo ambire a qualcosa di meglio e soprattutto mi sentivo tagliato per qualcosa di diverso. Proprio come uno dei protagonisti della vicenda (Valizze). Ma questo è più centrale ne “Il coraggio del gatto”.

Fatto sta che, mentre lavoravo al Ministero delle politiche agricole e mentre scrivevo e studiavo per un posto come ricercatore all’Università, ho deciso di usare la scrittura creativa in modo catartico e così mi sono messo a scrivere romanzi. Con grande soddisfazione direi. Sono un po’ grafomane, non c’è dubbio. E anche cervellotico.

 

  • Modena è stata la location del tuo primo noir, “Il coraggio del gatto” (Castelvecchi Edizioni), e ricompare per qualche istante anche in questa seconda pubblicazione. Che rapporto hai con questa città?

Un rapporto strano, controverso, ma anche incredibile. Ho lavorato e vissuto a Modena per un anno, quando ho vinto il concorso per il Ministero. In quella occasione l’ho odiata: avevo 30 anni, da solo, al primo lavoro, in una città poco vivace e dopo varie esperienze all’estero. Mi sentivo come un pesce abituato all’oceano, finito in un acquario. In quella occasione, però, ho conosciuto una Professoressa che un paio di anni fa ho risentito e che mi ha detto che stava per andare in pensione e che si liberava una posizione da ricercatore proprio a Modena. Ho partecipato alla selezione, l’ho vinta e ora sono di nuovo lì.

Ma adesso è tutta un’altra cosa. Non mi sono trasferito, faccio il pendolare, dato che devo essere lì solo quando ho lezione e gli esami. E ora la città è perfetta: non solo perché faccio il lavoro che mi piace, ma anche perché le sue caratteristiche sono un vantaggio. Per esempio, essendo piccola, faccio tutto a piedi. Arrivato in stazione, in pochi minuti posso essere sia direttamente all’Università, sia nell’appartamento dover risiedo abitualmente. Ma di certo questa coincidenza ci dice che la vita è strana e sorprendente: come un romanzo!

  • Dopo il successo di “Il coraggio del gatto”, tornano all’opera Alberto Molotti e Mario Valizze. Cosa ti ha portato a riproporre questi due personaggi? Credi che avranno ulteriore spazio in futuro?

Ho deciso di scrivere un sequel un po’ perché mi piace molto la serialità, soprattutto nel genere giallo, un po’ perché sono stato incoraggiato a farlo, da amici e conoscenti, che mi hanno detto di continuare. E poi mi sono divertito. Tra l’altro, per scriverlo, ho sfruttato il lock down del 2020.

Sul futuro non saprei: mi piacerebbe, ma al momento sono fermo. Devo recuperare il tempo perduto nel mondo accademico e dedicarmi quindi alle produzioni scientifiche, ma vediamo, magari mi ritorna l’ispirazione. Il prossimo però voglio scriverlo più pulp, con molta più adrenalina e meno riflessioni.

  • Il commissario Santini è un personaggio non certamente eroico, tanto che ce lo dipingi come un poliziotto per sbaglio. Come nasce l’idea di creare questo personaggio?

Alla fine non è così diverso da Molotti. Nessuno di loro è mai veramente un eroe. Che noia gli eroi! Quelli che non sbagliano mai, a cui va sempre tutto bene, che hanno sempre la risposta giusta. Voi ne conoscete nella realtà? Io no. Mi piace raccontare di personaggi irrisolti, sfortunati, in perenne lotta contro se stessi e contro la vita. A cui ogni tanto riesce di fare la cosa giusta al momento giusto. Perché alla fine è quello che accade a tutti noi nella realtà.

  • Tu sei un professore universitario e in questo tuo nuovo libro parli molto di università e non proprio in termini idilliaci. Se dovessimo vederlo come un ipotetico paziente, come giudichi le condizioni di salute del mondo accademico italiano?

Ah, beh, domanda difficile. Io la critico sicuramente, ma anche prendendola un po’ in giro: è quel sarcasmo un po’ tagliente che riservi a un amico a cui vuoi bene. E in fondo, se pensiamo a come è stata martoriata l’Università nel nostro Paese (tra riforme bislacche e tagli ai finanziamenti) va anche troppo bene. I miei colleghi e forse anche io siamo davvero bravissimi a fare ciò che facciamo. Però è vero che tante cose andrebbero migliorate e che alcuni vizi e vezzi – per la verità tipici degli accademici italiani – ci sono ancora e forse potrebbero essere superati.

  • Poni, nel tuo libro, l’accento sul mondo dei social network, all’uso non proprio limpido che se ne fa. Tu che rapporto hai con i social e con il mondo di Internet in generale?

Con Internet molto buono: lo uso tantissimo e mi è davvero utilissimo. Senza Internet sarei ancora un funzionario pubblico, non avrei scritto due romanzi e sarei ancora più annoiato. È stata veramente una rivoluzione. In questo caso l’aggettivo “epocale”, spesso usato a sproposito, è calzante, perché siamo entrati in una nuova epoca.

I social network sono qualcosa di veramente intrigante e complesso. Io uso soprattutto Facebook, da bravo boomer, anche se ho un account anche con Twitter, Instagram e Linkedin. Ma niente TikTok! Sono un po’ perversi, come scrivo nel libro, ma li uso abbastanza, come detto soprattutto Facebook e mi permettono di informarmi, di curiosare, di tenere i contatti con amici lontani o molto impegnati e di farmi qualche risata. Certo è che non si può dire che non agevolino la crescita di alcuni comportamenti discutibili, come quelli narcisistici ed esibizionisti, o la curiosità morbosa, l’invidia, ecc. Vediamo anche come evolvono. Ma quando sento qualcuno che mi dice: io ho chiuso il mio account e vivo meglio, un po’ lo invidio e mi chiedo sempre come mi sentirei io.

  • Mi ha divertito, nel corso della lettura, quel tocco di “Settimana Enigmistica”, con tanto di soluzioni a fine libro, celando riferimenti a canzoni, film, libri, personaggi, che spetta al lettore poi intuire e scoprire. Come ti è venuta questa idea?

Grazie per la domanda! È una cosa a cui tengo. Allora, ho cominciato con il primo romanzo, ma senza mettere le soluzioni. Quando mi veniva voglia di citare un film, una canzone o altro ho pensato: non devo mettere la citazione con tutti i dettagli e le informazioni e allora perché non renderla un po’ misteriosa e vediamo chi la trova! Del resto è un gioco che faccio sempre con i miei amici cinefili: pronunciare ad alta voce frasi di film e aspettare che l’altro ti dica il titolo. E quindi ho voluto fare lo stesso gioco con il lettore, estendendolo a tutte le citazioni di lavori artistici, siano essi letteratura, cinema, musica o altro.

  • Dedichi questo romanzo ai ricercatori precari, come mai questa scelta?

Allora, avendo già pubblicato alcuni libri, tra saggistica e romanzi, le dediche più importanti le avevo fatte. E allora pensavo ad un jolly. E siccome il romanzo è molto politico e racconta molto degli ultimi della società, concentrando però le vicende all’interno del mondo accademico, ho voluto dedicare il romanzo agli ultimi dell’Università. Anche perché lo sono stato anche io un ricercatore precario. Ed è brutto. E lo è non solo per la paga irrisoria e l’incertezza sul futuro, ma per quella sensazione di fallimento, di sentirsi sbagliati, in un mondo che premia sempre di più l’illetterato e l’ignorante, l’aver scelto lo studio, come professione, senza trarne alcun beneficio, è una condizione di vera amarezza.

  • Il ritratto che hai fatto della nostra società non è proprio tutto rose e fiori e mi pare di poter dire che gli ultimi due anni, nei quali abbiamo dovuto convivere con la pandemia, non abbiano migliorato questa situazione. Tu che ne pensi?

Domanda difficile. Dovrei scrivere per ore. Sicuramente la pandemia non ha aiutato, anche se potremmo trasformarla in un’opportunità. Peccato che adesso ci sia una guerra alle porte dell’Europa e la cosa non aiuta. Certo però la situazione, in generale, è grave. Siamo tutti un po’ più poveri e anche se la pandemia avrebbe dovuto insegnarci a riscoprire alcuni aspetti positivi (la bellezza di stare a casa, quanto sono importanti gli altri, soprattutto in presenza, l’importanza della salute, rispetto al profitto) non sembra che abbiamo imparato la lezione. Abbiamo il dovere di essere ottimisti, ma un cambio di visione è necessario. Pensiamo all’ambiente: se non facciamo qualcosa di veramente radicale saranno dolori. Speriamo bene.

 

Grazie mille a Dario Bevilacqua per la sua disponibilità e per aver risposto alle nostre domande. Speriamo vivamente di averlo ancora presto qui ospite del nostro blog.

 

David Usilla

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