IL SIGNOR F. – Racconto di Sandra Pauletto

IL SIGNOR F.

Aveva un nuovo progetto da realizzare e cambiare lo stile di vita non era proprio un progetto da niente! Anzi, era il progetto più ambizioso che avesse mai affrontato, ma ne sarebbe stato capace? Sarebbe riuscito ad eliminare delle abitudini da tempo consolidate? Doveva riuscirci! Non avrebbe più potuto sopportare una giornata come quella, quindi non c’erano alternative. Batteva sui tasti del computer con rapida eleganza. Ogni tanto si fermava, quasi a riprender fiato, e poi ripartiva con entusiasmo. Dopo qualche minuto batté le mani soddisfatto, mentre il rumore della stampante riempiva l’aria. Quando il foglio uscì, lo prese e lo guardò con un sorriso beato, poi con una risatina divertita, lo baciò rumorosamente.

“Ecco qua! Mi basterà seguire la pista che ho tracciato e anche quella buonanima del mio babbo (eh caro babbo!), stenterebbe a riconoscermi!” Spense il pc e andò a prepararsi per la notte. Si tolse la vestaglia a quadrettoni, e rimase con il pigiama color grigio topo, di un tessuto così ruvido, che spesso girandosi fra le coperte faceva le scintille. Si mise a letto e tolse da sotto il cuscino il berrettone di lana che gli aveva lasciato in eredità il nonno Gesualdo (Eh caro nonno!), certo il pon-pon era un po’ sgualcito ma teneva così caldo che buttarlo sarebbe stato un vero sacrilegio.

La mattina dopo il signor F si alzò di buon’ora, si stiracchiò, sbadigliò rumorosamente, arrivò in bagno strascicando le ciabatte color lilla (il colore preferito di sua nonna, ah cara nonna!), e si ricordò che quella non era una giornata qualunque, ma l’inizio di una nuova storia. Nessuno avrebbe più riso di lui, nessuno lo avrebbe indicato agli amici beffeggiandolo senza fare la minima attenzione a non farsi sorprendere. Si tolse il berretto scoprendo una testa rotonda e prossima alla calvizia, fece il più bel sorriso di cui era capace (e onestamente non era un granché), pettinandosi con attenzione quel poco che c’era. Si infilò sotto la doccia. L’acqua stava trasformando il sapone in schiuma su tutto il corpo, quando gli venne in mente che, sulla lista prima della doccia poteva aver scritto qualcos’altro! “Chi ben comincia è a metà dell’opera” diceva sempre nonno Filippo, (eh caro nonno!), così chiuse l’acqua e uscì dalla doccia coperto solo di schiuma, e corse a prendere la lista. Rischiò due volte di volare a gambe all’aria sul pavimento del bagno, ma si salvò frullando le braccia come un tacchino.

Accertatosi che la doccia fosse la prima cosa da fare, se ne tornò in bagno abbassando a terra lo sguardo mentre passava davanti al grande specchio del corridoio. Gli avevano sempre insegnato che non è buona norma guardare un corpo nudo neanche quando quel corpo è il proprio. Seguì i primi punti con precisione estrema. Ma come gli erano venuti in mente certi cambiamenti? Se non avesse avuto la certezza di essere stato lui a scriverli, avrebbe potuto tranquillamente attribuirne la paternità a chiunque tranne che a se stesso. Dopo essersi vestito avanzò timoroso ad occhi chiusi verso lo specchio. Non aveva il coraggio di guardarsi, temeva che non sarebbe riuscito a portare avanti la sua battaglia. Forse non era stata una buona idea decidere di cambiare, forse avrebbe dovuto farlo ma per gradi, non in maniera così drastica, ma lo zio Ernesto diceva sempre “le cose o son bianche o son nere” e il caro zio nella sua vita aveva avuto sempre ragione quindi, visto che il bianco e il nero sono gli opposti, e visto che ormai doveva essere arrivato davanti allo specchio, non gli rimaneva che aprire gli occhi. Lo specchio rifletteva un ometto calvo, con camicia e maglione sportivi, un paio di jeans, e ai piedi un paio di scarponcini color pelle di daino. Signor F non realizzò immediatamente ciò che vedeva. Poi si coprì la testa con le mani e corse a rileggere la lista, non era possibile che avesse scritto proprio quello che vedeva, e se l’aveva scritto doveva essere completamente impazzito.

Riprese il foglio con mani tremanti, lesse e rilesse, poi quasi con le lacrime agli occhi si andò a sedere sul letto e cominciò ad accarezzare un ammasso di peli marroni bisbigliandogli parole dolci: “Anche se ti lascio a casa non vuol dire che non ti voglia più” diceva, “non so perché, ma l’ho scritto su quella lista che tu non puoi venire, e lo sai che lo zio Ernesto, (eh caro zio!) diceva sempre: “La parola di un vero uomo è una soltanto”non ho scelta, se quello ho scritto, quello farò.” Fece un sospiro e si alzò in piedi e prima che riuscisse a ripensarci uscì. Camminava rasente muro, guardandosi attorno come un ladro, tanta era la vergogna. Non si sentiva a suo agio vestito in quel modo, e temeva che tutti gli avrebbero puntato gli occhi addosso, ma non se lo filavano proprio. “Ecco perché nessuno mi ha ancora deriso: non mi hanno visto! Come mi è venuto in mente di vestirmi così? Mi sembra già di sentirli ridere! Riderei anch’io se fossi in loro vedendomi!” Mentre così ragionava era quasi arrivato in piazza. Quello era il posto peggiore, dove i bulli di quartiere seduti sulle loro motorette lo sbeffeggiavano sempre a gran voce. Il Signor F cominciò a camminare guardandosi la punta delle scarpe incapace di alzare lo sguardo. Li aveva visti da lontano e contava mentalmente i secondi che gli restavano prima di sentirli ridere sguaiatamente di lui. Aveva il respiro accelerato mentre si sforzava di non mettersi a correre. Vide con la coda dell’occhio la ruota di una delle loro moto, socchiuse gli occhi come chi teme di ricevere percosse, ma non accadde nulla, veramente nulla. “Possibile che non mi abbiano ancora visto?” si chiedeva il Signor F

Staranno certamente architettando qualche nuovo scherzo”. Mentre stava per superarli del tutto, una risata triviale arrivò alle sue orecchie facendogli fermare il cuore e il passo. Ma come aveva potuto sperare che qualche ridicolo cambiamento sarebbe stato sufficiente a cambiargli la vita? Si sentiva la faccia rossa per la vergogna, era quasi pronto per alzare lo sguardo e affrontare la solita montagna di derisione, quando si rese conto che quelle risa non erano per lui. Il cuore gli batté di colpo a mille e quasi scoppiò a ridere mentre stringendo i pugni per l’emozione si rimetteva in movimento. Andò a casa di corsa, rubando con gli occhi la propria immagine in tutti i posti dove poteva essere riflessa.

Quello era lui, quello era il nuovo lui che nessuno avrebbe più deriso. Arrivato a casa si tolse i suoi nuovi vestiti, cenò e si preparò, come la sera prima, per la notte. A luci spente ripensava alla sua immagine riflessa, continuava a non abituarsi. Si girava e rigirava nel letto mentre il pigiama grigio topo riempiva il buio di scintille sfregando contro la coperta. “Mi abituerò” si disse calzandosi bene in testa il berretto di nonno Gesualdo, (eh caro nonno), e si addormentò accarezzando l’ammasso di peli marroni che stava sul letto con lui.

Passarono i giorni, e la vita del Signor F aveva effettivamente preso una piega diversa.

Poteva passeggiare per la strada senza essere vittima di scherzi e risatine.

Poteva capitare anche che scambiasse due parole con qualcuno al bar ottenendo risposta, mentre prima la gente si allontanava in silenzio.

La lista funzionava! Aveva ottenuto quello che desiderava: essere trattato come tutti gli altri. Com’era bello non essere più vittima della cattiveria della gente, non essere sempre lo zimbello di tutti. Ma nonostante quella tranquillità, aveva cominciato a dormire male, la notte si girava e rigirava nel letto più volte, e da qualche tempo sognava di guardarsi allo specchio e di non vedere nessuna immagine riflessa. Era un incubo che lo svegliava di soprassalto e lo lasciava insonne e pieno di angoscia.

Andò dal medico.

Continuando a dormire così poco, rischierà di andare incontro a seri problemi nervosi” disse il dottore “se proprio non riesce a dormire prenda questi sonniferi e vedrà che risolverà il problema”.

Il Signor F la sera andò in cucina strascicando le sue pantofole lillà, prese le medicine che gli aveva dato il medico, e si fermò a guardarsi allo specchio compiaciuto. “Come sono elegante” disse lisciandosi il pigiama addosso “se mi vedesse nonna Cesira sarebbe fiera di me” (eh cara nonna!), con il ricordo della sua immagine ancora negli occhi, si infilò sotto le coperte e si addormentò. Ma come ogni notte, verso le due, si svegliò di colpo a causa del solito incubo. Rimase un po’ sveglio, ma grazie alla medicina riuscì a riaddormentarsi. La cosa non durò a lungo, perché dopo qualche ora l’incubo si ripresentò, e lui si svegliò nuovamente di colpo sempre più angosciato. Questo si ripeté diverse volte in quella notte, così il mattino dopo era più stanco e agitato che mai.

Il Signor F aveva comprato un nuovo armadio e tanti nuovi vestiti. Quello vecchio era rimasto al suo posto, e non passava giorno che non lo aprisse per accertarsi che i suoi abiti (quelli veri) fossero in perfetto ordine. Quanto gli mancava il suo cappotto giallo canarino, il farfallino verde smeraldo e quello stupendo cappello con la rosa sul lato destro.

Quella sì era eleganza, peccato non venisse apprezzata.

Nonno Filippo, (eh caro nonno!), gli aveva sempre insegnato che chi disprezza compra, che non doveva prestar attenzione ai commenti della gente, ma i tempi erano cambiati, e l’irriverenza dei giovani aveva raggiunto dei livelli che era impossibile da sopportare, così non aveva avuto altra scelta se non quella di rendersi invisibile nella massa, confondendosi con loro. Certo aveva ottenuto quello che voleva, ma a quale prezzo?

Era inutile continuare a nasconderlo, nonostante tutto neanche ora era felice! Anzi, per quanto potesse sembrare assurdo, stava (se possibile) anche peggio di prima. E le notti in bianco erano solo l’estremo segnale della sua inquietudine. Prima quando tutti si burlavano di lui, non aveva mai avuto problemi a dormire, non conosceva neanche l’esistenza degli incubi ricorrenti, perché, per quanto la vita fosse assolutamente insopportabile, lui era in pace con se stesso, era coerente, e faceva tutto ciò in cui credeva, senza abbassarsi mai a compromessi con un mondo che non voleva accettarlo per quello che era.

Passeggiò su e giù per la stanza passando da un armadio all’altro, poi si diresse verso l’armadio nuovo, quello che aveva cominciato a considerare l’armadio del travestimento e indossò quei vestiti. Prima di andar fuori, dopo essersi guardato allo specchio sospirando, accarezzò con affetto l’ammasso di pelo che stava sulla sedia vicino al letto.

Uscì guardandosi in ogni riflesso, passò in piazza dove i soliti ragazzotti stavano seduti sulle moto, nessuno di loro sembrava accorgersi di lui. Questo lo faceva sentir meglio, ma quel senso di malessere non se ne andava, si sentiva colpevole di aver avuto così poco orgoglio e amor proprio da rinnegare se stesso. Era quasi arrivato al bar quando senza pensarci due volte fece dietrofront e corse letteralmente verso casa.

Trafelato chiuse la porta dietro di sé, e gli si appoggiò contro. Solo quando si ritrovò nudo davanti allo specchio si sentì meglio. “Questo sei tu” si disse “e non quella maschera che vai portando in giro. Io non posso fingere di essere nient’altro, altrimenti non vivrei la mia vita, ma la farei vivere a qualcuno che non mi appartiene. Che mi deridano, si burlino di me se è questo che vogliono, ma io non voglio più essere ciò che non sono”.

Si diresse verso il vecchio armadio e cominciò a rivestirsi con i suoi abiti antichi e bizzarri, ma che sentiva suoi, e nei quali si riconosceva. Si guardò allo specchio decisamente compiaciuto. Giacca verde pisello su pantaloni giallo acceso, un fiore rosso usciva dal taschino e ai piedi portava delle scarpe laccate bianche a pallini.

Sorrise di gusto tirando un sospiro di sollievo. Poi si diresse verso la sedia dove si trovava l’ammasso di pelo marrone, lo prese e se lo sistemò sulla testa guardandosi compiaciuto allo specchio:

Bentornato Signor F.”

Sandra Pauletto

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