Il disastro del Vajont – 9 ottobre 1963

Il disastro del Vajont

Foto di Enrico Moro

Sono tanti i protagonisti di questo doloroso capitolo della storia italiana: il monte Toc, la diga del Vajont, vari  addetti ai lavori, e gli inermi cittadini di più paesi situati intorno alla diga.

Non è facile capire da dove cominciare.

Cerchiamo un punto di partenza nel 1929 quando la ditta SADE (Società Adriatica Di Elettricità) di proprietà del Conte Volpi di Misurata affida a Carlo Semenza di costruire la diga più grande del mondo, e quest’ultimo sceglie la Valle di Erto e Casso per realizzare il progetto. La valle è posta tra due montagne: il Monte Salta e il Monte Toc a lui opposto. Gli abitanti della valle, conoscendo da sempre il territorio, sanno che è soggetto a dei franamenti. Lo stesso Toc significa: “pezzo marcio” e Vajont vuol dire : “viene giù”.

Sarebbe bastato ascoltare gli abitanti? Avere un po’ di buon senso?

Fatto sta che i tecnici della ditta danno l’ok per procedere con l’inizio dei lavori.

A che serve la diga?

Lo scopo era quello di convogliare le acque del Piave e dei torrenti Maé e Boite e fungere in questo modo da serbatoio idrico di regolazione stagionale.

Il progetto chiamato originariamente: “Grande Vajont” era concepito per recuperare energia elettrica, infatti essendoci lungo il percorso dell’acqua diversi dislivelli, veniva prodotta energia mediante piccole centrali idroelettriche. I lavori furono fermati allo scoppio della Seconda Guerra Mondiale.

Per costruire la diga, la ditta deve appropriarsi dei terreni di Erto e Casso e ciò verrà fatto con la forza, al punto che proprio in quel periodo, nel territorio venne costruita una caserma dei Carabinieri, con il compito di consegnare gli espropri.

Nacque un comitato anti diga guidato dal medico del paese e da sua moglie, ma potete immaginare quanto i loro tentativi risultarono inutili. I lavori ripartirono nel 1957 ma il progetto venne modificato rispetto la piano iniziale. La diga viene alzata a 266 metri totali con il lago a quota 722,60 metri il bacino divenne pari al triplo della somma degli altri sette invasi della società SADE. Un’opera mastodontica. Venne chiesta dal Ministero un’ altra perizia geologica perché temsi e l’imponenza dell’opera, e anche i cittadini hanno paura in quanto il paese di Erto si troverà a distanza minima dal lago artificiale: solo 54 metri. É il 1959 quando l’opera venne terminata. Un record: due soli anni.

Una data importante nella storia del Vajont è il 4 novembre 1960, quando Leopold Muller, in seguito a controlli approfonditi con carotaggi e quanto necessario, scopre delle spaccature sul monte, figlie di una frana avvenuta tempo prima, larga qualche chilometro e profonda centinaia di metri, e avverte che prima o poi succederà di nuovo.

La sua “profezia” é confermata da Edoardo Semenza (figlio del progettista della diga). I giornali non ne parlano. Solo Tina Merlin osa farne un articolo con il solo risultato di essere rinviata a giudizio con l’accusa di diffondere false notizie e generare il panico. Sarà poi assolta in quanto nulla di quanto da lei riportato risulterà essere falso.

vajont

Alla luce del possibile rischio la SADE fa svariate simulazioni su un modello in scala e il 3 luglio 1962 decreta che mantenendo il livello del bacino d’acqua entro quota 700 metri qualsiasi frana non avrebbe creato conseguenze. I pochi residenti che ancora si battono contro la diga sono rappresentati da Alessandro Da Borso (Presidente della Provincia di Belluno), che si reca a Roma per chiarimenti e informazioni. Tornerà a capo chino rilasciando una sola dichiarazione: “La SADE rappresenta una potenza contro la quale è impossibile lottare e vincere”.

Passa il tempo e le cose nel mondo cambiano. L’energia elettrica si nazionalizza. Va in mano al nuovo colosso Enel che diventa responsabile della Diga del Vajont, che diverrà diga di Stato.

Nel 1963 in seguito a questi passaggi i nuovi proprietari, ignorando i valori di sicurezza indicati in precedenza, riempiono l’invalso fino a 715 metri e il 30 marzo, in seguito, questo viene permesso dall’Autorizzazione Ministeriale.

Tutto procede bene, ma a metà del mese di settembre dello stesso anno il monte Toc dà un primo segnale scivolando senza preavviso di ben 22 centimetri.

Essendo monitorato, gli addetti, consapevoli dell’accaduto, fecero quello che non avrebbero mai dovuto fare. Erano stati diffidati da compiere svasamenti rapidi in quanto pericolosi per la stabilità della montagna. Tre settimane dopo, l’8 ottobre 1963, i segnali dell’imminente disastro sono visibili ad occhio nudo. A mezzogiorno degli operai vedono che la montagna si sta muovendo, qualche ora dopo alcuni alberi cadono. Scende la sera, tutti i cittadini guardano con preoccupazione alla montagna e alla gigantesca diga proprio sotto. Le prime autorità iniziano a muoversi attorno alle 22, quando Giancarlo Rittmeyer, in qualità di geometra della diga, chiama il direttore costruzioni della SADE, Alberico Biadene, che già si era accorto che qualcosa non andava nella mattinata, chiedendo a chi di dovere un piano di evacuazione per i cittadini di Erto e Casso. Ma il tempo che intercorre tra la telefonata del geometra e il disastro è precisamente di 39 minuti. Sono esattamente le 22.39 del 9 ottobre 1963 quando dalle pendici del monte Toc si stacca una parete di roccia di circa 2 chilometri quadrati di superficie pari a 260 milioni di metri cubi di volume. Precipitando in blocco nell’invalso della diga sottostante, riempito fino a 700,42 metri sul livello del mare. Lo schianto è apocalittico: un’onda di 230 metri composta da almeno 50 milioni di metri cubi tra solido e liquido si solleva, e gran parte di essa supera il muraglione della diga andando ad abbattersi nella valle sottostante spazzando via nella sua furia distruttrice tutti i paesi che incontra nel suo percorso: Longarone, Pirago, Faé, Codissago Villanova, Rivalta, Maé e i paesini friulani di Erto e Casso compresi i borghi adiacenti. La gente non ha molto tempo per rendersi conto di quanto sta succedendo: si sentono dei rumori, si alza il vento, ma scappare è impossibile.

La conta dei morti sarà un bollettino in di guerra: 1910 quasi tutti del paesino di Longarone. Incredibile ma a quanto sembra i primi soccorsi arrivarono appena alle 5.30 del mattino dopo con gli elicotteri. Altre strade per raggiungere il territorio sono impraticabili, persino le rotaie del treno sono sollevate da terra. Lo spettacolo è inimmaginabile. L’inferno sulla terra. Cadaveri ovunque, fin sulle cime degli alberi dove la forza dell’acqua li ha scaraventati. I superstiti per motivi di sicurezza (dissero) vennero evacuati e trasportati nei paesi vicini chi a Claut chi a Cimolais in strutture alberghiere.

La negligenza umana ma sopratutto quella di interessi economici hanno sfidato la natura che si è fatta pagare con vite umane. Attualmente esiste un Museo del Vajont, in memoria della tragedia ed è visitabile presso il Centro Visite del Parco Naturale delle Dolomiti Friulane di Erto e Casso, e dal 2007 è stato reso visitabile il coronamento della diga per i primi 20 metri.

Foto di Enrico Moro

Il disastro della diga del Vajont fu assolutamente colpa dell’uomo, di più uomini, ma come troppo spesso accade, il percorso per ottenere giustizia fu incredibilmente lungo. Vedrà coinvolta una decina di persone di cui due imputati morirono per morte naturale durante i tempi del processo, e uno si suicidò alla vigilia del processo stesso. Tra vari iter processuali, tra processo, appello e cassazione alla fine restò colpevole solo Biadene che venne condannato nel 1971 a 5 anni di reclusione, di cui tre condonati. Assieme al processo sui colpevoli parte quello per il riconoscimento dei danni che dal 1970 vedrà la sentenza di primo grado a Belluno appena nel febbraio del 1997 con la quale si stabilisce che l’Enel, divenuta proprietaria della diga, debba risarcire i Comuni di Erto Casso con 77 miliardi di Lire.

Così oltre il danno la beffa, ma c’era d’aspettarselo.

Non ci rimane almeno di onorare i morti con la memoria, in modo che nessuno possa dire di non conoscere il disastro del Vajont

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