CATERINA CAMPODONICO: “LA STORIA DELLA VENDITRICE DI NOCCIOLINE”.

CATERINA CAMPODONICO: “LA STORIA DELLA VENDITRICE DI NOCCIOLINE”

 

Esistono delle figure che sono entrate a pieno diritto nella storia, ma che il tempo ha fatto dimenticare ingiustamente. Una di queste è sicuramente Caterina Campodonico.

Il nome a molti di voi non dirà nulla a meno che voi non siate genovesi, perché credo e spero che tra i suoi conterranei il nome di Caterina Campodonico sia ancora ben impresso nella memoria. Ora vediamo chi era e perché ritengo giusto soffiare via la polvere dell’oblio del suo nome.

Allo stesso modo di come inizia il libro di Collodi, anche per la nostra protagonista non si tratta né di un re né di una regina, almeno per quanto riguarda la discendenza e il suo sangue reale. Caterina è una donna del popolo.

Nasce a Genova in un giorno e mese imprecisato del 1804. Se sommiamo il momento storico al fatto che fosse nata femmina in una casa di umili origini si può ben immaginare il destino classico a cui andava incontro, infatti a Caterina non venne data alcuna istruzione, lasciandola semi analfabeta. Imparò l’arte culinaria, se così vogliamo chiamarla e finì già da giovanissima  nei mercatini e lungo le strade a  vendere ciambelle di sua produzione e collane di nocciole, che in qualche modo la resero popolare, se non famosa.

Ma la vita di Caterina Campodonico inizialmente, come detto, segue la linea classica delle donne del suo ceto, è praticamente costretta a lavorare fin da giovanissima e a sposarsi altrettanto giovane.

Un matrimonio che non ci è dato sapere se fosse partito per amore, ma che sicuramente naufragò di lì a breve, in quanto Giovanni Carpi, così  si chiamava il marito, si dimostrò presto un ubriacone scansafatiche.

La storia che si tramanda, racconta che la giovane e determinata Caterina riuscì a ottenere il divorzio dall’uomo  pur dovendo pagare una multa per “abbandono del tetto coniugale”.

Non essendo nel XIX° secolo ancora introdotto il divorzio, possiamo supporre che si tratti di un divorzio richiesto al tribunale della sacra rota, in quanto quest’ultimo esiste dal 1331.

La famiglia di Caterina non videro di buon occhio il gesto della figlia, anzi se ne vergognarono a tal punto che in qualche modo la diseredarono.

Una donna divorziata e che lavora come ambulante per mantenersi, all’epoca era assai poco dignitoso (purtroppo).

Come sappiamo però, anche gli antichi dicevano: “PECUNIA NON OLET”, ovvero “il denaro non puzza” e quando nel 1880 Caterina si ammalò gravemente tutti i parenti tornarono al suo capezzale, pronti a spartirsi il gruzzolo che la donna in una vita di lavoro e risparmi era riuscita a mettere da parte.

Questi sciacalli (non trovo altro modo per definirli) riuscirono anche a litigare per l’eredità nella stanza in cui Caterina combatteva contro la malattia. Sfortunatamente per tutti coloro che altro non aspettavano la morte della povera nocciolatrice,  per impossessarsi dei suoi risparmi, la donna guarì.

Consapevole di quanto accaduto al suo capezzale, pensò bene di non dare soddisfazione ai presenti che in vita l’avevano isolata e derisa, decise che avrebbe investito i suoi soldi per far realizzare il proprio monumento funebre.

Si recò quindi presso la bottega di uno dei più importanti artisti genovesi dell’epoca Lorenzo Orengo (29/11/1838 – 25/3/1909) e gli commissionò il lavoro che per la sua bellezza è ora ricordato come la sua opera più importante.

Effettivamente il monumento funebre di Caterina Campodonico è veramente un’opera d’arte che raffigura la venditrice di noccioline nella sua statua di marmo, esattamente com’era quando passava le sue giornate a vendere ciambelle e collane di nocciole.

Il marmo egregiamente lavorato riesce a trasformare la pietra fredda nel broccato della sottana, far risaltare le frange dello scialle, il pizzo della camicetta e del grembiule e gli orecchini di filigrana che la donna era solita portare. Tra le sue mani, come sempre in vita, anche nel monumento funebre Caterina tiene ciambelle e collane di nocciole. I capelli raccolti, lo sguardo fiero fanno del monumento funebre una vera bellezze e la tentazione di toccarlo per sincerarsi che si tratti di marmo e non di stoffa o materiali più plastici è tanta.

Questo gioiello dell’arte funeraria Caterina riuscì a vederlo, perché fu terminato nel 1881 mentre la donna era ancora in vita e in sulute.

L’ opera si trova  nel cimitero monumentale di Staglieno, precisamente nel porticato inferiore a ponente al numero 23.

Ogni giorno la donna si recava in visita e si sistemava a fianco della statua e dell’epigrafe che Caterina aveva affidato niente meno che al poeta dialettale più famoso dell’epoca: Giambattista Vigo (1844 – 1891), l’epigrafe è in genovese ma noi riportiamo il testo tradotto in italiano:

“Vendendo collane e ciambelle all’acquasanta, al Garbo e a San Cipriano, con il vento e sole e con acqua a catinelle, per assicurarmi un pane nella vecchiaia fra i pochi soldi mettevo via quelli per tramandandomi nel tempo, mentre son viva e son vera portoriana Caterina Campodonico (la paesana) 1881. Da questa mia memoria, se vi piace, Voi che passate pregatemi la pace ”.

La donna morì il 7 luglio 1882. Il funerale fu onorato da tantissimi genovesi che l’accompagnarono nell’ultimo saluto.

La donna pare sia considerata ora nella tradizione popolare come portatrice di fortuna perché qualcuno giocò al lotto i numeri della data della sua morte, vincendo.

A noi piace ricordare Caterina Campodonico invece come esempio di orgoglio e fierezza femminile, determinazione e riscatto dalle usanze popolari che vedevano (e ancora oggi in qualche parte del mondo) vedono la donna come umile sottomessa ai soprusi di uomini violenti e famiglie retrograde, incapaci di ribellarsi come invece ha fatto in tutta la sua vita Caterina, la venditrice di nocciole.

Sandra Pauletto

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