Black Mirror – Quarta Stagione – Crostini distopici in salsa cinematografica.

Black Mirror – Quarta Stagione

Anno: 2017

Paese di produzione: UK

Genere: fantascienza/ drammatico/ thriller

Ideatore: Charlie Brooker

Produttore: Charlie Brooker

Regia: Toby Haynes, Jodie Foster, John Hillcoat, Tim Van Patten, David Slade, Colm McCarthy,

Cast: Jesse Plemons, Cristin Milioti, Jimmi Simpson, Michaela Coel, Billy Magnussen, Milanka Brooks, Osy Ikhile, Paul G. Raymond, Rosemarie DeWitt, Brenna Harding, Owen Teague, Nicholas Campbell, Andrea Riseborough, Andrew Gower, Kiran Sonia Sawar, Georgina Campbell, Joe Cole, George Blagden, Gwyneth Keyworth, Jessie Cave, Maxine Peake, Jake Davies, Clint Dyer, Douglas Hodge, Letitia Wright, Daniel Lapaine, Aldis Hodge, Alexandra Roach, Babs Olusanmokun

Episodi:

  1. USS Callister
  2. Arkangel
  3. Crocodile
  4. Hang The DJ
  5. Metalhead
  6. Black Museum

Con ancora negli occhi le immagini indelebili di Giochi Pericolosi, Zitto e Balla e San Junipero, ecco la quarta stagione di Black Mirror; secondo parto artistico di Charlie Brooker accompagnato da Netflix. Come da contratto tornano i sei episodi che, volente o nolente, conferiscono alla serie compattezza e una struttura progressive: poche tracce ma dalla lunghezza consistente; USS Callister con settantasei minuti è il secondo episodio più esteso di sempre. Giudicata globalmente la quarta stagione si fa’ notare per un tentato inglobamento di forme cinematografiche più tradizionali, che vanno a contaminare il particolare impasto distopico di Black Mirror. Questo interesse la serie l’aveva già dimostrato nella terza stagione, per altro con ottimi risultati! Qui il prodotto finale è meno organico e riuscito, ma in alcuni episodi ci si rende conto che l’impegno tecnico non è stato trascurato ma è addirittura aumentato. Lo si può dire: Black Mirror, arrivato alla sua quarta incarnazione, non è più unicamente materia per appassionati di tecnologia, ma è un vero e proprio ponte tra un incubo distopico/ tecnologico in compresse casalinghe e le delizie del grande schermo. Magari i fedeli dei blocchi a tre segmenti saranno rimasti delusi per questa evoluzione formale, tuttavia la natura di Black Mirror non è venuta a mancare per niente.

USS Callister, prima storia in scaletta, fotografa perfettamente l’andamento attuale. Elemento principale anche qui è il confronto con una realtà virtuale senza apparente via di scampo, ma stavolta gli anonimi fondali inglesi vengono sostituiti da un intero universo da esplorare delineato dallo stile più vintage di Star Trek. Che questa romantica scelta sia stata azzeccata o meno, sta a voi decidere; sicuramente gli appassionati della serie di Gene Roddenberry saranno rimasti contenti! Il protagonista di questa vicenda spaziale è Robert Daly, non solo proprietario della Callister Inc., ma anche programmatore di Infinity, un gioco di fantascienza per computer che sta spopolando. Nonostante il suo genio, Robert è eclissato dal socio James Walton, che è diventato a tutti gli effetti il volto della Callister Inc., un po’ grazie alle sue abilità imprenditoriali, ma anche a causa della passività di Robert, che non fa’ niente per ribellarsi alle sue prepotenze. Daly, deriso o ignorato dai colleghi, trova una fuga dalla realtà che lo circonda in una versione di Infinity che crea per uso strettamente personale. A popolare questo universo c’è lo stesso Daly e i suoi colleghi, creati da tracce di DNA che si è procurato a loro insaputa. Queste copie digitali, che compongono una piccola flotta, eseguono gli ordini del capitano Daly della USS Callister.

Intorno a Robert Daly (Jesse Plemons) la flotta dei colleghi clonati di USS Callister.

Premettendo che questo primo episodio è probabilmente il più complesso di tutto Black Mirror, lo stratagemma utilizzato da Brooker per abbindolare lo spettatore è facilmente individuabile: l’empatia verso i personaggi. Daly è fondamentalmente un debole, incapace di reagire e di farsi rispettare. Il suo unico modo per sentirsi libero e felice è creare una finta realtà in cui sentirsi qualcuno, giungendo a comportarsi da vero despota, ergendosi addirittura a giudice e carnefice del suo equipaggio. Nella realtà tuttavia rimane il solito schivo agnellino. Chi lo circonda incarna un po’ quello che si può vedere in tante realtà lavorative competitive: soci interessati al profitto, colleghi menefreghisti, superficiali e antipatici. La versione personalizzata di Infinity rappresenta una sorta di contraltare di quello che lo spettatore vede nella vera realtà della trama. Nello spazio profondo sono i colleghi quelli vessati mentre Daly regna incontrastato nel suo mondo vendicativo. A questo punto quindi potrebbe essere che il pubblico tenda a parteggiare per lui. La sua rivalsa però diventa più spietata quando si scopre che le copie che popolano Infinity versione Flotta Stellare hanno una propria coscienza e perciò sanno come e perchè sono state create, cioè per essere schiavizzate. Brooker vuole in sostanza convincerci che i pixel che vediamo agitarsi sullo schermo sono proprio come noi; anche se non hanno stranamente organi riproduttivi. Accettato questo allora nella fantasia è lecito aspettarsi che Daly possa e venga punito e sconfitto. Arrivati a questo punto Brooker si sarebbe potuto considerare soddisfatto. Ma se non ci fosse un’incongruenza e un passaggio di trama estremo non saremmo di fronte a Black Mirror. Di fatto alla fine la flotta virtuale composta dai colleghi replicati e schiavizzati riesce a ribellarsi dal dominio del capitano Daly, approdando addirittura, attraverso un portale, alla versione online di Infinity, mentre Robert rimane intrappolato nella versione personalizzata. Ma non finisce qui. Il vero Daly, ancora collegato neuralmente al gioco non riesce più a tornare alla realtà e rimane in uno stato di coma apparentemente irreversibile. Quindi la realtà virtuale, da scappatoia dal mondo reale viene, prima sovvertita dai ribelli e in seguito frigge il cervello del povero Daly! E’ chiaro che per familiarizzare con la morale astrusa di USS Callister si debba stare al gioco dall’inizio alla fine della puntata perchè qui Brooker calpesta ogni cosa con il passo pesante del drammaturgo britannico più impietoso. Anche qui Black Mirror dunque non abbandona il suo linguaggio criptico, provocatorio e forse anche un tantino pericoloso, in cui sembra persino visibile un sadico autocompiacimento. Complimenti vivissimi ad effetti speciali ed ambientazioni, tutto eseguito egregiamente. Da un punto di vista etico ed intellettuale invece possiamo riparlarne.

Arkangel, secondo episodio. Qui il soggetto è ancora più tradizionalmente Black Mirror. Nello specifico viene esaminato il controllo esercitato dalla tecnologia su un individuo e l’alterazione della realtà che ne comporta. Dopo aver perso di vista per qualche minuto la figlia Sara al parco, Marie decide di farle impiantare un nuovissimo sistema di controllo, Arkangel. In questo modo la madre potrà localizzare in qualsiasi momento la figlia e sapere cosa sta facendo attraverso una connessione tra il cervello di Sara e un tablet. Il programma è inoltre limitante in quanto, non solo può censurare agli occhi di Sara episodi ritenuti violenti (come la vista del sangue), ma anche quelli che la spaventano (come il cane che incontra tutti i giorni che le abbaia quando la vede). Ma Sara nel frattempo cresce e il controllo che Marie e Arkangel hanno su di lei non può sempre rimanere lo stesso, anche perchè la madre lo utilizza morbosamente per tenerla d’occhio. Arkangel dunque non diventa solo invadente per la privacy ed improbabile per l’educazione di Sara, ma provoca anche una sorta di dipendenza in Marie. Quando Sara arriva a sviluppare comportamenti strani ed autolesionisti, sua madre viene convinta da uno psicologo a disattivare Arkangel, che per altro nel frattempo non è stato nemmeno approvato eticamente e scientificamente. L’adolescenza ormai inoltrata, con le sue conseguenze, risveglia però in Marie la necessità di tornare a controllare Sara e questo rinfocolerà pulsioni sopite e metterà seriamente in pericolo il rapporto madre – figlia.

Il momento in cui il sistema di controllo Arkangel viene innestato nel cervello di Sara.

Jodie Foster, che dirige a sorpresa questa puntata, conferma ciò che Black Mirror dice più spesso: il progresso tecnologico è la rovina dell’uomo. Le storie della serie inoltre, nonostante si auto concludano, sono connesse tra loro (la censura visiva utilizzata da Arkangel è la stessa della maschera di Gli Uomini E Il Fuoco). Black Mirror è a tutti gli effetti lo specchio globale di un’unica società ricca di aberrazioni social digitali. Arkangel vi si colloca in maniera tipica, sia tematicamente che narrativamente, senza aggiungere granchè e soprattutto, duole dirlo ma senza interessare più di tanto. La regia non compie grandi slanci e la trama è priva di grandi sussulti. Con Crocodile ci si addentra in un’opera di ben altro livello. Rob ubriaco al volante con l’amica Mia investe un ciclista. Per non passare grane i due decidono di gettare il cadavere in un lago. Quindici anni dopo Mia è sposata ed è diventata un famoso architetto, mentre Rob ha passato tutto questo tempo cercando di metabolizzare l’omicidio. Quando Mia è fuori città per una conferenza Rob la raggiunge e la informa di aver deciso di mandare una lettera in forma anonima alla moglie della vittima per scusarsi. Mia, totalmente contraria, nel tentativo di dissuadere Rob lo uccide. E’ solo l’inizio di un concatenarsi di circostanze che trasformeranno Mia in un’arrestabile omicida. Chiave di volta dell’episodio è un nuovo dispositivo, il “rammentatore”, un apparecchio che connesso al cervello delle persone, permette la visione su uno schermo dei loro ricordi. Quando questo entra in gioco, utilizzato da una ragazza che aiuta la polizia ad investigare, i crimini di Mia rischiano di emergere. La filosofia della serie qui è assolutamente rispettata ma il ricorso al thriller e al noir ne elevano notevolmente la qualità filmica. Violenza e disperazione vanno di pari passo con l’ambientazione fredda ed inospitale, quasi sempre immersa tra la neve e il ghiaccio. Andrea Riseborough, nei panni di Mia Nolan, inoltre si fa’ ricordare per la sua interpretazione. L’assurda escalation di follia e sete omicida, mossa dall’egoismo e dalla perdita di controllo della protagonista, può trovare ragione di esistere solo in una serie come questa, ma bisogna ammettere che anche il colpo di scena finale, che nonostante tutto non può non strappare una risata, è qualcosa di mirabile. Anche qui nonostante si capisca che alla fine verrà fatta giustizia ( e stavolta non c’è proprio niente da reclamare), subentra sempre un’inquietante riflessione uso – tecnologica. Mettere nelle mani di semplici cittadini uno strumento che può smascherare criminali violenti è il frutto di un mondo in cui la vita umana non conta più niente.

Hang The DJ rappresenta insieme ad Arkangel il momento meno entusiasmante della stagione. “Coach” è un sistema di appuntamenti in cui le coppie vengono create da un’intelligenza artificiale che calcola un algoritmo per ogni persona e decide anche quanto tempo devono trascorrere insieme prima di lasciarsi. Nella realtà che stiamo affrontando dunque le relazioni non hanno la libertà che conosciamo. Si devono accettare le persone che vengono scelte dal programma e si deve accettare la lunghezza del periodo. Se non si rispettano le regole c’è una squadra di sicurezza da affrontare che impedisce alla gente di ribellarsi e di scappare. Tutto ciò perchè intorno a questo regno c’è un muro altissimo da cui evidentemente si può scappare. Amy e Frank, accoppiati e innamorati, capiscono e decidono di fuggire. Una volta scavalcato il muro però finiscono in una realtà virtuale popolata da tantissime altre copie di loro stessi. Rivelazione finale: i veri Frank e Amy si stanno appena incontrando in un pub, ciò che abbiamo visto fino a questo punto erano le loro proiezioni digitali in una app per incontri. Di nuovo confronto e ribaltamento tra virtuale e reale, in una storia che onestamente può solamente vantare il brivido della ricerca della libertà; che comunque si riferisce a due bit che si muovono in un bacino di scrematura cibernetico per comporre i profili caratteriali di due persone. Amore ai tempi delle app per incontri, che tristezza. Se Hang The DJ passa inosservato, Metalhead è un vero gioiello.

In Hang The Dj le relazioni amorose vengono decise da un sistema che domina tutto l’universo circostante.

Avete presente quando la nonna vi dice sempre che le ricette migliori sono quelle semplici? Ecco, proprio come Metalhead. Brooker traccia una storia post Black Mirror minimale, accantonando riflessioni e metafore e mettendo in primo piano gli effetti che con ogni probabilità la tecnologia ha avuto sul nostro pianeta. In un futuro desolato, in cui l’uomo è primitivizzato come in Mad Max, l’unica cosa che conta è sopravvivere scappando da creature meccaniche omicide, chiamate “cani”. A quattro zampe, dotati di armi da fuoco e sistemi di localizzazione che, una volta esplosi finiscono sotto cute alle persone, i “cani” sono la più pura rappresentazione del terrore. Si nascondono, predano e si muovono come l’Alien di Ridley Scott. Il linguaggio narrativo e visivo di David Slade è da urlo, partendo dal bianco e nero utlizzato, che ne aumenta esponenzialmente dramma e suspense, fino alla narrazione in medias res che non permette allo spettatore di conoscere tutta la storia, acquisendo mistero e curiosità. Personaggio principale in un cast composto da tre attori è Bella, interpretata da una notevole Maxine Peake, volto sofferente ma durissimo di una battaglia disperata della specie umana contro la macchina. L’esito è pessimista, ma questa come sappiamo è una prerogativa di Black Mirror. Tutto ciò che concerne Metalhead è molto probabilmente l’apice qualitativo ed artistico della sua messa in scena.

Bella (Maxine Peake) è la combattente tostissima di Metalhead.

Dopo aver assistito ad un piccolo capolavoro fantathriller post apocalittico si giunge al finale di stagione con Black Museum; capitolo auto celebrativo che attraversa un po’ tutto Black Mirror. Nish, ferma ad una stazione di servizio per caricare la sua macchina con un pannello solare, decide di fare visita al vicino Black Museum. Il proprietario, Rolo Haynes, è un tipo un po’ strano, ma Nish entra lo stesso ad osservare. Il Black Museum custodisce oggetti del crimine e alcuni di questi erano già comparsi nelle precedenti puntate, a confermare quanto Black Mirror abbia ormai costruito intorno a sé un mondo unico. Rolo Haynes ne è in possesso perchè è stato ricercatore neurotecnologico proprio alla clinica San Junipero. Per sviscerare il significato di questa chiusura di stagione e leggere tra le righe di Black Mirror basterebbe questo: il museo del crimine è composto da oggetti ottenuti dal progresso tecnologico e sanitario. E’ questo il drammatico futuro che ci aspetta. Tuttavia, Nish e Rolo proseguono la loro gita nel museo, tra storie di medici che hanno sperimentato chip che trasmettono sintomi patologici e un uomo che custodisce la coscienza della moglie in coma trapiantandosela prima nel cervello e poi in un pupazzo, fino a che non arrivano all’attrazione principale: Clayton Leigh, una persona vera e propria, condannata alla sedia elettrica per omicidio, ma ridotta ad ologramma per sua volontà in cambio di soldi per la famiglia. Rolo Haynes però, artefice e proprietario di questa invenzione, usa Clayton per far divertire i visitatori dando loro la possibilità di azionare di nuovo la sedia elettrica per rievocare il momento della sua morte. Una morbosa, sadica e delirante attrazione. Sadismo ampiamente ricambiato dal pubblico che esagera così tanto con la tortura da condurre la coscienza ologramma di Clayton in uno stato vegetativo permanente.

Rolo Haynes e Nish al Black Museum.

Colpo di scena però! Nish in realtà è proprio la figlia di Clayton e, dopo aver avvelenato di nascosto Rolo, riesce a scambiare la sua coscienza con quella del padre. Rolo quindi muore nella realtà e anche la sua coscienza viene polverizzata dalla sedia elettrica di Clayton che ha divertito tanta gente. Black Museum recupera ciò che aveva introdotto in questa stagione USS Callister: una volta imbastita una realtà virtuale, le stesse leggi del mondo reale valgono anche lì. Non importa che tu sia un fantasma o una proiezione, per Black Mirror tu vali esattamente come un essere umano. Naturalmente ne hai la stessa valenza solo per quanto concerne le torture, i soprusi, le violenze e le tragedie (solo San Junipero aveva teorizzato un esito allegro all’interno di un mondo artificiale). Per un racconto in cui la fantasia è assolutamente al potere dunque ci vuole estrema fantasia anche da parte nostra per accettare le regole del gioco, e anche uno stomaco forte. In questo caso il tema veicolato è quello della vendetta e lo si può anche interpretare come un buon senso di catarsi e riscatto proprio nei confronti di un futuro molto, molto, molto poco rassicurante. Ma il meccanismo di Black Mirror, così arzigogolato ed estremo, non sarà un po’ fine a se stesso? E così termina la quarta stagione, confermando il potere oscuro che Brooker esercita attraverso la sua creatura, sempre in bilico tra accusa e ambiguità, ma che negli anni si è arricchita di un linguaggio cinematografico a tratti delizioso.

Zanini Marco

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