Intervista a Elia Banelli – “Il giullare di morte” (Alter Ego Edizioni)

Intervista a Elia Banelli – “Il giullare di morte” (Alter Ego Edizioni)

Abbiamo da poco recensito “Il giullare di morte” (Alter Ego Edizioni) di Elia Banelli e abbiamo ora la possibilità di scambiarci quattro chiacchiere per conoscere meglio lui ed il suo nuovo romanzo

 

Buongiorno Elia Banelli mi permetto, se sei d’accordo, di darti del tu. Partiamo con le domande:

  • Essendo la prima volta che ti recensiamo e che di conseguenza ti intervistiamo, ci piacerebbe sapere un po chi è Elia Banelli uomo per poi andare a scoprire chi è Elia Banelli scrittore. Puoi darci un tuo ritratto per conoscerti meglio?

È sempre difficile descriversi senza rischiare di degenerare in una forma patetica di autoreferenzialità. Mi limito a definirmi un sognatore con i piedi ben impiantati per terra e un idealista pragmatico. Per natura sono avido di curiosità e mi annoio subito, per questo ho il grave difetto di restare intrappolato in una bolla di insoddisfazione esistenziale permanente.

  • Il giullare di morte è un po’ il sequel del tuo primo fortunato romanzo, L’uomo dei tulipani (Alter Ego Edizioni). Avevi già in mente di farne una saga?

Quando ho iniziato, assolutamente no. È stato il positivo riscontro dei lettori che si sono affezionati sempre di più alla figura del protagonista, il carabiniere Franco Laganà, a spingermi a scrivere un sequel. Tra questi vorrei citare Nunzio Belcaro, il libraio della Ubik di Catanzaro, che tra gli altri consigli mi ha suggerito l’idea di un secondo libro per approfondire ancora di più la psicologia e la natura introspettiva del mio “detective”.

Il primo libro era ambientato a Città di Castello, come mai questa volta hai deciso di mandare Franco Laganà in missione a Catanzaro?

Ritengo si debba partire dallo “scrivere ciò di cui si conosce”. Questo approccio non può che includere anche i luoghi. Certo, oggi grazie a Google Earth chiunque può passeggiare per le strade di San Francisco e ambientarci un romanzo come se ci vivesse, pur restando seduto a casa davanti a una scrivania, ma respirare l’atmosfera di una città, viverla quotidianamente a contatto diretto con la gente, gli odori, i sapori, i suoni, è un’esperienza reale che sulle pagine si può trasmettere con maggiore enfasi ed efficacia. A Città di Castello ho vissuto sette anni della mia vita e ci vado periodicamente per incontrare amici e parenti. A Catanzaro ci sono nato e vi ho vissuto finora per quasi venticinque anni. Entrambi i posti sono stati una preziosa fonte di ispirazione. Mi piaceva inoltre l’idea di ambientare una storia nel luogo in cui sono cresciuto, lo ritengo un atto d’amore verso le proprie radici.

  • Fai un uso molto calibrato del dialetto calabrese in questo romanzo. Quanto credi che dialetti possano essere un valore aggiunto della nostra cultura, della nostra letteratura?

 

È stata una sfida complicata perché io mi considero sempre un “sangue misto”: di origini calabresi dal lato materno e umbre dal lato paterno. In famiglia non parlavamo mai il dialetto e per me era inevitabile ascoltarlo per strada o masticarlo tra i compagni di scuola. Tra i miei amici però ero colui che sapeva parlarlo di meno e infatti mi sfottevano per questo. Ho cercato di essere il più attento e preciso possibile per non incorrere in errori banali. Alla fine, per fortuna, a parte un paio di parole basate più che altro su una soggettiva differenza di “interpretazione”, i lettori calabresi non hanno riscontrato errori mentre i lettori di altre regioni sono riusciti a comprendere le frasi in dialetto e questa è stata una sfida che posso dire di aver vinto con grande soddisfazione. In generale il dialetto, se ben calibrato, evitando l’eccesso che possa stancare il lettore o appesantire la trama, è un arricchimento utile per la lingua. Non è un caso che molte espressioni o battute, se pronunciate in dialetto, siano molto più divertenti o esplicative. Trasportato in letteratura ciò rende la narrazione più simile al parlato comune. I dialoghi sono essenziali nella trama e devono essere credibili. Anche in Umbria ho utilizzato in alcuni passaggi il gergo locale per rendere i personaggi più realistici.  

 

  • Quali sono state per te le difficoltà di calare le vicende di un serial killer in una terra così particolare come la Calabria, in particolare a Catanzaro che in genere non funge da scenario per romanzi di questo tipo?

 

Anche questa è stata una sfida importante e una scommessa coraggiosa, proprio perché il capoluogo calabrese è stato raramente preso in considerazione dalla letteratura di genere. Anzi, non ricordo di aver mai letto un giallo o un thriller ambientato nella mia città. Il perché non saprei spiegarlo, in quanto ritengo comunque che Catanzaro esprima le contraddizioni tipiche del Sud e della provincia italiana in generale: un continuo contrasto tra bellezza e degrado, tra alto e basso, tra esempi virtuosi e vizi inconfessabili.

Ho pensato che questo avrebbe conferito alla storia un’ambientazione inedita e originale.

Un’occasione per i catanzaresi di rivedere la propria città con occhi diversi, e per tutti gli altri lettori di scoprire un angolo di Calabria suggestivo, misterioso, spesso purtroppo sottovalutato. Ma è successo anche con il primo libro: quanti romanzi noir sono stati ambientati a Città di Castello?

 

  • Immagino che oltre che scrittore tu sia anche un avido lettore. Cosa deve avere un noir per essere perfetto?

Premetto che a mio parere non credo esista o possa esistere il noir perfetto, però in linea di principio gli elementi che non devono mai mancare in una crime story, oltre alla classica formula SSS (Sesso, Soldi, Sangue), sono i personaggi a cui affezionarsi, un clima di conflitto permanente che mantenga alto il livello della suspense, colpi di scena dosati con cura e la possibilità per il lettore di imparare sempre qualcosa di nuovo, che si tratti di un cibo particolare, di un monumento antico, o delle tecniche di “Bloodstain Pattern Analysis”, il lettore deve chiudere il libro sentendo che oltre a essersi divertito, ha incrementato il suo bagaglio generale di conoscenze. È questa la forza propulsiva del noir: deve saper parlare della vita di tutti i giorni, scavare a fondo nei problemi della società, analizzare il contesto politico che funge da brodo di coltura per il diffondersi degli atteggiamenti violenti e deve declinarsi in una ricerca sociologica e psicologica su vizi e virtù degli esseri umani.

  • Da dove prendi gli spunti per i tuoi libri?

Da tutto: dalla vita reale delle persone, che siano parenti, amici, semplici conoscenti o totali sconosciuti, dalla cronaca sui giornali, dai film e dalle serie tv, dai videogiochi e dai libri di altri autori. Ma più di tutto, oltre la ricerca e lo studio costante, alla base di chi vuole esercitare l’arte della scrittura deve esserci una predisposizione alla curiosità, un acuto spirito di osservazione e una buona dose di fantasia. Senza queste tre caratteristiche, che sono in gran parte naturali e spontanee, difficilmente nella nostra testa potrà nascere una storia interessante.

  • Elia Banelli quando hai iniziato a scrivere questo romanzo avevi già in testa la trama e i personaggi oppure il tutto si è evoluto man mano che scrivevi?

Come per “L’uomo dei tulipani”, anche nel giullare di morte ho iniziato senza avere in mente una trama specifica: mancava soprattutto il nucleo centrale e il finale. È stato una casuale progressione creativa a portare avanti la storia, grazie al carattere dei personaggi che diventava sempre più definito e dagli eventi che man mano si andavano configurando. Nella fase di costruzione dei diversi colpi di scena e del finale mi sono io stesso meravigliato e divertito. La scrittura sa essere una forma concreta di magia e deve essere vissuta in primis come una passione e un piacere.

  • Se un giorno Franco Laganà dovesse approdare al piccolo o grande schermo chi vedresti come interprete più adatto?

 

Quando è comparso per la prima volta nella mia mente, il personaggio di Laganà aveva circa 35 anni, un fisico asciutto e allenato, i capelli corti rasati e i baffetti e mi sembrava più simile al calciatore Bonucci. Se dovessi trasfigurarlo in un attore, magari con lo stesso look, forse il più adatto sarebbe Marco Bocci. In fondo Franco Laganà, per come ho inteso ideare il personaggio, non si discosta molto dal commissario Scialoja della serie Romanzo Criminale.

 

 

David Usilla

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