Intervista a Andrea Guglielmino – “Terminator, il tempo è una macchina”

Intervista a Andrea Guglielmino – “Terminator, il tempo è una macchina”

 

Abbiamo da poco recensito il saggio di Andrea Guglielmino “Terminator, il tempo è una macchina”, Golem Libri e abbiamo ora la possibilità di scambiare nuovamente quattro chiacchiere con l’autore che abbiamo avuto il piacere di intervistare il mese scorso.

 

Ciao Andrea grazie per essere tornato trovarci. Oggi parliamo del tuo saggio.

 

D: Perché hai scelto di analizzare proprio la saga di Terminator?

 

R: Grazie mille a voi, o come amo dire per questa specifica circostanza, grazie T-1000! C’è in fattore personale, naturalmente, perché “Terminator”, il primo, è il film della mia vita. Un meccanismo di scrittura assolutamente perfetto. C’è il futuro che incombe rappresentato da questo cyborg inarrestabile. Ci sono i miti che tornano: Sarah Connor è una moderna Cassandra. Il cyborg un nuovo Golem. C’è un padre che combatte per un figlio che non sa nemmeno essere suo figlio, in maniera istintiva. C’è una figura messianica, John Connor, stesse iniziali di Jesus Christ. C’è il paradosso della predestinazione, l’epica, una colonna sonora incessante con quei continui DOOM che fanno letteralmente il suono del destino. C’è tutto. Poi mi affascina questo continuo tentativo di ripartire, di reboottarsi, che è un termine cinematografico rubato proprio all’informatica. I computer si reboottano, ma anche i miti, devono variare ogni volta per poter fondare aspetti sempre variabili della realtà. Lì lo fanno attraverso il paradosso temporale. La linea del tempo è considerata come un sistema operativo che non funziona più, da cercare di riavviare a partire da un certo “punto di ripristino”, in questo caso, prima che nasca John Connor, il nemico delle macchine. C’è il reboot fuori dalla narrazione, perché a partire dal terzo film è un continuo cancellare e rifare, spesso fallendo, che si basa sul riavvio della storia con la s minuscola, e quello all’interno della narrazione, che si basa appunto sul “riavvio” della Storia con la S maiuscola, ovvero la linea temporale. Questa corrispondenza mi ha sempre affascinato e inoltre è una manna per il mio approccio antropologico, che si basa sull’analisi di diverse versioni dello stesso mito. Si mettono vicine, si confrontano cercando di tirarne fuori le differenze sostanziali, e quello ci dice come siamo cambiati nel tempo noi, che il mito lo riceviamo. Negli anni ‘80 il cyborg doveva guardare l’elenco del telefono per trovare la sua nemica, le macchine dovevano comunque piegarsi all’analogico. Oggi c’è la rete, il concetto di “Cloud”, internet diffuso in tutte le case. Paradossalmente, la saga fatica ad adattarsi perché deve allontanarsi dalla dimensione carnale e fisica del rapporto tra uomini e macchine che c’era all’origine.

 

D: Quanto credi che il cinema sia veicolo di messaggi spesso ignorati?

 

R: Quando faccio antropologia del cinema non cerco mai il messaggio che il regista voleva lasciare. Quello lo fanno casomai i critici. Io cerco quello che il regista non aveva alcuna intenzione di dire ma dice comunque, perché è il mito a dirlo per lui. Cameron considerava Terminator un film di cassetta, probabilmente non si rendeva conto di quanto sarebbe diventato importante. Lo si evince da diverse interviste rilasciate al tempo, eppure si è portato dietro temi e suggestioni che sono dentro di lui, come dentro tutti noi, perché apparteniamo al genere umano, e i miti fondanti ce li portiamo dietro in un bagaglio culturale collettivo, di cui non siamo sempre del tutto coscienti. Alcune cose sono consapevoli, altre no. Io lavoro su quel confine. E non sono interessato alla qualità artistica, solo alla portata culturale. Quando studio in questo modo non esiste “alto” o “basso”. Il più brutto fumetto di quart’ordine ispirato a Terminator può contenere una variante importante quanto quella del film più bello di tutta la saga.

 

D: Qual è il tuo rapporto con il tempo?

 

R: Non mi basta mai, vivo mille vite: lo scrittore, il giornalista, il papà, il fumettista. Non ho tanto tempo per la nostalgia ma a volte vorrei poterlo fermare un attimo. Diciamo che adesso comincio ad essere selettivo, perché non mi manca solo il tempo nel corso della giornata, ma anche quello anagrafico. Ho quarantacinque anni, inoltre ho avuto un’esperienza negativa in ambito di salute che mi ha fatto riflettere. Come dice Jep Gambardella ne “La grande bellezza”, non posso permettermi più di fare cose che in realtà non mi va di fare. Non vedo più film che non mi interessano solo perché hanno un marchio di richiamo. Non vado più alle anteprime stampa solo perché ci vanno tutti. Cerco di fare cose che mi ripagano con in certo senso di soddisfazione. Non è facile, perché siamo tempestati da mille imput e concentrarsi diventa a volte quasi impossibile, ma il tempo è una concezione umana. Se tutti gli esseri umani morissero nello stesso istante, il tempo esisterebbe ancora? Quello che interessa ciascun essere umano è il suo tempo su questa Terra, e non ci è dato sapere quanto ce ne è concesso. Bisogna fare in modo che sia il nostro tempo e non quello di qualcun altro, come nel bellissimo romanzo “Momo” in cui dei misteriosi uomini in grigio rubavano il tempo alle persone.

 

D: E con le nuove intelligenze artificiali tipo Alexa?

 

R: Alexa non l’ho mai usata, mi limito a volte a fare degli scherzi a Siri chiedendole cose assurde per vedere quanto è veramente intelligente, ma non supera mai il test. Mi mettono un po’ di ansia. Già fatico a delegare le mie cose a un essere umano, ma loro mi sembra che non seguano mai i miei ordini. La tecnologia che ha salvato la mia vita, o almeno alcuni suoi aspetti, è la navigazione via Tom Tom (o simili), perché ho un pessimo senso dell’orientamento e ho perso intere serate a cercare posti che non ho mai trovato. Da quando ho il navigatore in macchina è tutta un’altra musica, anche se qualche volta mi ha giocato brutti tiri anche lui. Una volta confuse una “Via della Penna” al centro di Roma con una in uno sperduto paesino di provincia. Dovevo consegnare un pacco importante e per poco non persi il lavoro. Da allora comunque butto un occhio anche al Tuttocittà cartaceo. Terminator insegna: mai fidarsi troppo delle macchine.

 

D: Quanto credi che l’ibridazione uomo – macchina come si vede nel film sia lontana da divenire realtà?

 

R: Nel primo Terminator in realtà non c’è ibridazione. Ci sono gli umani e ci sono le macchine, che hanno imparato a imitare gli umani. Sono ben mascherate, con pelle e muscoli veri, sudore, eccetera, ma sono sempre macchine. Man mano però nella saga i due fronti si avvicinano. In Terminator: Salvation abbiamo un uomo che viene trasformato in una macchina, mantenendo la sua coscienza. Lo stesso John Connor, in diverse iterazioni della saga, finisce per diventare una macchina. Si crea un “ponte”. Per combattersi, le macchine sono diventate simili agli uomini e gli uomini freddi come le macchine. Questo può portare a una pacifica convivenza? Lo saprete leggendo il saggio. Ma questo avvicinarsi è naturalmente lo specchio della nostra società, ed è questo che interessa l’antropologo che è in me. Perché tutti noi siamo ormai ibridati con le macchine e non ce ne accorgiamo. Se dimentico il cellulare mi sento “nudo”, mi sembra che mi manchi una parte. Quante volte ci è capitato? Ecco, quella è una nostra “protesi”, che ci rende un po’ uomini-macchina. Ed è solo l’esempio più lampante. Anche un orologio ci rende un po’ cyborg, non è un caso che la saga parli di robotica e di tempo. Il tempo noi lo misuriamo attraverso le macchine, e quindi è naturale che, una volta estinto gran parte del genere umano, le macchine trattino il tempo come se fosse lui stesso una macchina, da sondare, esplorare e modificare con l’ennesima macchina, ovviamente una macchina del tempo.

 

D: Amando tanto il cinema hai mai desiderato di fare l’attore?

 

R: Una volta chiesero a un antropologo famoso se avesse mai avuto voglia di frequentare di persone le tribù “selvagge” di cui parlava nelle sue opere, e lui rispose “Dio me ne scampi e liberi!”. Non un grande esempio di modernità, né da prendersi a modello per il metodo – anche se pure io, di fatto, sono un antropologo “da tavolino”, dunque della specie peggiore, secondo le coordinate accademiche – però fa ridere e riflettere. Ecco, io ho questo approccio per i set cinematografici. Mi sembrano un covo di pazzi, e ne sto alla larga, se non come reporter esterno alla produzione. Non farei mai il regista – diciamo “forse mai”. Ho imparato ad essere possibilista – e tantomeno l’attore, anche perché odio imparare i testi a memoria. Ma se me lo proponessero farei un cameo, quello sì, giusto per dire di aver provato l’esperienza dall’interno. Ci sono andato vicino varie volte ma non è mai capitato.

 

D: È più complicato scrivere un saggio o la sceneggiatura per un fumetto?

 

R: Quando scrivo narrativa, e i fumetti in particolare, soffro. A volte hai una buona idea ma la trama non ne vuole sapere di svilupparsi, le cose non si incastrano, devi rendere equilibrato ogni atto e con i secondi atti ho sempre un problema, come tutti gli scrittori. Sappiamo quasi sempre come inizia e come finisce una storia ma tutto quello che c’è in mezzo è problematico, una gran fatica, che ti ripaga perché poi quando finalmente le cose iniziano a girare sembra una magia, soprattutto se poi il pubblico apprezza e ti dà soddisfazione. È un parto. Quando scrivo saggistica io mi rilasso, mi prendo i miei tempi, avanzo le mie tesi, faccio ricerca, cerco conferme ma anche smentite, torno indietro, cambio idea, è un’avventura. Sembra quasi che il saggio si scriva da sé. Sono in trance. Ma poi mi rendo conto che è meno faticoso solo all’apparenza. Questo saggio, così come i due precedenti “Soprattutto” e “Star Wars – Il mito dai mille volti”, è stato scritto in un anno, ma è il frutto di trent’anni di letture, studi e riflessioni. E dopo trent’anni che rifletti su un argomento, e ti metti a scrivere, ci arrivi pronto, come per un esame per cui ti sei preparato tantissimo. In entrambi i casi l’ispirazione non cade mai dal cielo, ma il secondo sembra più indolore solo perché non si conta il tempo di studio, ma solo quello di scrittura.

 

 

D: Qual è il tuo rapporto con la fantascienza?

 

R: Ottimo, direi. La amo sia come lettore/spettatore che come scrittore, e ne apprezzo tutte le sfumature, dalla space opera con razze aliene improbabili e gente che respira negli spazi senza casco come Star Wars a quella un po’ più seriosa e realistica, come “Gravity” o il classico “2001: Odissea nello Spazio”. Non sono il tipo che si è letto tutto Asimov da cima a fondo ma piuttosto recepisco i grandi classici attraverso le citazioni che ne fanno film e fumetti che vi si sono ispirati. Ricordo di essermi alzato all’alba nel 1991 per andare a comprare il primo numero di Nathan Never, di aver visto Blade Runner a soli 8 anni e averlo capito (grazie al supporto di mia madre, grande cinefila, che oggi purtroppo non c’è più ma rivive nella mia passione per il cinema) e più di recente di essermi divertito a fare lo scrittore sci-fi per la rivista “Alieni” della Bugs Comics. “Terminator”, però, resta per me una spanna sopra, nel suo mescolare la fantascienza prima all’horror e poi al blockbuster avventuroso, mantenendo sempre un certo afflato epico e malinconico.

 

 

Grazie mille per essere tornato a trovarci ancora. Arrivederci a presto sulle pagine dei gufi narranti

Sandra Pauletto

 

R: Ancora una volta, grazie T-1000 a voi!

 

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