Intervista a Nicola Verde – Mastro Titta e l’accusa del sangue –

Intervista a Nicola Verde – Mastro Titta e l’accusa del sangue –

 Nicola Verde

 

Abbiamo da poco recensito “Mastro Titta e l’accusa del sangue” di Nicola Verde e abbiamo ora la possibilità di scambiare quattro chiacchiere con lui per parlare del suo ultimo libro, approfondirne alcuni passaggi, e per farci raccontare dei suoi futuri progetti

Buongiorno Nicola, grazie per essere qui con noi. Mi permetto, con il tuo permesso, di darti del tu.

 

  1. È la prima volta che recensiamo un tuo libro e che quindi abbiamo il piacere di poterti intervistare. Mi piace prima di tutto conoscere la persona che si cela dietro all’artista. Ci puoi raccontare qualcosa di te?

Grazie, innanzi tutto, dell’invito e della vostra attenzione, un grazie particolare vorrei indirizzarlo a Carlo Frilli, editore illuminato, e ad Armando D’Amaro e Michela Volpe, il braccio destro e sinistro dell’editore (quale uno e quale l’altro non saprei dire). Quanto a me ho 70 anni, in pensione da una decina, ho lavorato per circa 40 in banca. Lettore bulimico ho la pessima abitudine di cominciare 4/5 libri contemporaneamente, abbandonandone molti, ma non perché non mi piacciono, ma soltanto perché, da buon bulimico, vengo sopraffatto dalla “fame” di cambiare genere e autore… Pessima abitudine, l’ho detto, Flaubert, in una lettera indirizzata all’amante, scrisse: “Come saremmo colti se conoscessimo bene cinque o sei libri”. Pratico la scrittura fin da quando ho memoria: a 15 anni scrivevo poesie; a 18 ho cominciato a scrivere racconti di fantascienza, horror e fantastico, almeno fino a quando, ormai sposato, mia moglie, mia prima e unica lettrice, non mi dette l’ultimatum: “O mi scrivi un racconto giallo, oppure non ti leggo più”, così ho provato con il mio primo racconto giallo/noir: “Sa morte secada”, che ebbe un certo riscontro, tanto che qualcuno mi convinse a tirarne fuori un romanzo. La mia avventura professionale è cominciata da lì, radicandosi poi quando ebbi la fortuna di incrociare un “certo” Luigi Bernardi: editor, editore, saggista, uno dei massimi esperti italiani di fumetti e giallo/noir, critico, autore egli stesso e, per mia fortuna, talent scout, al quale si devono “scoperte” del calibro di Lucarelli, Fois, Vallorani, Ferrandino ecc. Lo incontrai al premio Lama e Trama dove era il presidente, vinsi quella prima edizione, per poi catturare il suo interesse. Questo a dimostrazione che molte volte non basta la qualità dei propri lavori se non è abbinata alla buona sorta di incontrare le persone “giuste”.

 

  1. Il protagonista del tuo romanzo è Giovanni Battista Bugatti, meglio conosciuto come Mastro Titta. Di lui, al di là del taccuino su cui annotò i nomi delle persone che, come esecutore delle pene capitali dello Stato Pontificio, ha giustiziato non esistono tracce scritte di suo pugno. Ci puoi raccontare tu qualcosa di questo personaggio?

Mastro Titta nacque a Senigallia (stessa città di Pio IX) nel 1779 e morì a Roma nel 1869, un anno prima della breccia di Porta Pia; di professione ombrellaio, viveva nel rione Borgo da cui non poteva uscire per questioni di sicurezza e quando doveva portare a termine una delle sue “giustizie”, il suo passaggio al di là del Tevere veniva annunciato col grido «Mastro Titta passa ponte»; di sé non ha lasciato nulla, tranne quel taccuino a cui alludevi, dove registrava con scrupolo le sue esecuzioni, 516, con la data e il luogo, nome del condannato, tipo di esecuzione (impiccagione, decapitazione, squartamento); il taccuino fu ritrovato e dato alle stampe da Alessandro Ademollo nel 1886; nell’occasione lo scrittore ci dà le poche descrizioni che abbiamo del Bugatti: basso, tracagnotto, folte fedine che gli attraversavano le guance sempre ben rasate (tant’è che a Roma si diceva che avesse il viso “liscio come il culetto di un bambino”); vestito sempre in maniera sobria, con altrettanta sobrietà e professionalità si dedicava alla sua attività di boia nella convinzione che “la mela marcia andasse tolta dal cesto prima che rovinasse tutte le altre” e tanta era la sua professionalità che poco gradì, all’arrivo dei francesi, l’obbligo di usare la ghigliottina; aveva una umanità tutta sua: al condannato offriva una presa di tabacco e si comunicava prima di ogni esecuzione (un confessore “privato” lo seguiva quando doveva compiere il suo “ufficio” fuori dalle mura romane). Insomma, in qualche modo si considerava “la mano secolare della giustizia divina”. Cominciò la sua attività di boia all’età di 17 anni e la concluse all’età di 85 e soltanto perché la testa del condannato, per la prima volta nella sua lunga carriera, rotolò dal palco; messo a riposo percepiva una pensione di 30 scudi al mese, che più o meno corrispondevano al doppio di uno stipendio di un impiegato. Sposato con una donna che si diceva “parlasse con i morti” (probabilmente a causa della sua bruttezza), ebbe due figli, un maschio e una femmina. Da quel “famoso” taccuino un altro scrittore, tale Ernesto Mezzabotta, ne trasse le uniche memorie apocrife e io, con i miei romanzi e racconti, non ho fatto altro che riprenderle e proseguirle con un Ernesto Mezzabotta, infatti, che intervista Mastro Titta pochi mesi prima della sua morte.

  1. Il titolo del tuo noir fa riferimento ad una accusa molto infamante che veniva fatta alla comunità ebraica da parte dei cattolici. Ci spieghi meglio in cosa consiste “L’accusa del sangue”?

Una vera e propria calunnia antisemita che accusava gli ebrei di usare nel periodo pasquale il sangue di bambini cristiani per impastare il pane azzimo o per uso medicale o per riti sacrificali. L’accusa, purtroppo, ebbe una certa diffusione, mai del tutto sconfessata dagli ambienti cattolici, anzi talvolta rinfocolata. L’argomento è stato ripreso e trattato in anni più recenti dal rabbino, e storico, Ariel Toaff nel suo discusso libro “Pasque di sangue”, dove, pur ribadendo che gli omicidi rituali non sono altro che un mito in funzione anti ebraica, non esclude del tutto che all’interno della comunità askenazita si possano essere verificati rari casi di questo tipo; il libro ebbe due edizioni, la prima subito ritirata a causa delle forti contestazioni e una seconda con i chiarimenti del suo autore. Il mio romanzo, comunque, si rifà anche anche ai cosiddetti “battesimi forzati”, di quando, cioè, la Chiesa si arrogava il diritto di prendere per sé quei bambini ebrei che per una ragione qualsiasi venivano battezzati, famoso è il “caso Mortara”, la cui eco non si è ancora spenta, tant’è che Spielberg aveva in animo di trarne un film, progetto forse non ancora del tutto abbandonato e adesso ripreso dal nostro Marco Bellocchio.

  1. Se non sbaglio, praticamente tutti i personaggi che fai muovere nel tuo libro, ad esclusione dell’ispettore amico di Mastro Titta, sono realmente esistiti. Quanto tempo hai dovuto dedicare al lavoro di documentazione e di ricerca storica per poter riuscire a scrivere un romanzo così realistico?

Sono convinto che in un romanzo storico si debbano inserire personaggi realmente esistiti, rispettandone, per quanto possibile, le peculiarità. La stessa cosa dicasi per l’ambientazione e i fatti. Questo per dare quanto più realismo è possibile alla vicenda che si vuole raccontare. La Storia è un grande affresco con degli strappi che lo storico ha l’obbligo di ricucire riprendendo in modo pedissequo i fili della trama e dell’ordito, mentre il narratore può ricucirli col filo della propria fantasia, senza alterare, naturalmente, il “quadro generale”. A questo proposito mi piace sottolineare il compito ingrato e “pericoloso” di un narratore storico: prendersi sulle spalle l’incarico di “affrescare” un periodo lontano nel tempo senza interpretazioni personali e, soprattutto, senza inesattezze, con “innesti” con la propria storia che non ammettono sbavature, insomma, una specie di “incastro a rondine” e per far ciò è indispensabile una documentazione corretta e approfondita che, per quanto mi riguarda, ha richiesto molti mesi di studio, studio e ricerca continuati, per altro, anche durante la stesura.

  1. Se non sbaglio all’inizio della tua esperienza di scrittore era indirizzata verso generi diversi dal giallo. Come è nata la tua passione per il giallo e per il romanzo storico noir?

Ne ho già fatto cenno nel rispondere alla prima domanda: ho cominciato con la fantascienza, il fantasy e l’horror, per poi virare verso il giallo/noir su richiesta di mia moglie, e approdare al giallo/noir storico quando, con gli amici scrittori romani, mettemmo su un’antologia, “Delitto capitale”, dove immaginammo una serie di omicidi accaduti nell’arco di duemila anni in un’insula romana (Roma è l’unica città al mondo dove ci sono case abitate da oltre due millenni), io mi occupai dell’Ottocento e alla ricerca di un personaggio che mi venisse utile, “inciampai” in quelle famose memorie apocrife di Mastro Titta. Innamorarmi di quel personaggio, di quel periodo storico e di quella città, sporca, puzzolente e addormentata, è stato un tutt’uno, tant’è che se avessi la possibilità di viaggiare nel tempo è proprio quella città che mi piacerebbe visitare.

  1. Credi che ci sarà ancora spazio per Mastro Titta nei tuoi libri futuri o il suo ciclo pensi si sia concluso? Hai già in cantiere un nuovo libro?

Un terzo romanzo è già in bozza, come abbozzato è il quinto della mia serie “sarda” e il terzo della mia Roma degli anni Cinquanta del secolo scorso (il secondo dovrebbe uscire il prossimo anno), tutto è nelle mani dei lettori, nel senso che potrò decidere regolandomi sulla loro risposta. Intanto, per non farmi mancare nulla, è in dirittura di arrivo il mio romanzo più difficile racchiudendo tutte le mie passate esperienze con i generi più diversi, dalla fantascienza, al giallo e al giallo storico, per approdare alla scienza, una cavalcata lunga nove secoli a partire dal 1100 circa per arrivare ai giorni nostri, perché, come dico nella possibile epigrafe: “Un narratore ha la libertà di speculare sui fatti reali, inventando, talvolta, una verità possibile”.

  1. Se le avventure di Mastro Titta trovassero una trasposizione televisiva che credi potrebbero essere gli interpreti principali dei tuoi personaggi?

La descrizione che ha dato l’Ademollo del boia papalino e che io in qualche modo ho ripreso, non credo dia molte prospettive agli attori odierni e, forse, neppure a quelli del passato, comunque, di sicuro, bisognerebbe cancellare dalla memoria collettiva il faccione bonario di Aldo Fabrizi: Giambattista Bugatti, in arte Mastro Titta, non era né bonario, né burlone, ma un uomo integro che prendeva molto sul serio il suo lavoro di boia, però neppure così indifferente, come qualcuno ha cercato di suggerire, di fronte alla morte, probabilmente un uomo lacerato nell’animo per il mestiere che faceva, ed è quello che ho cercato di trasmettere nei miei romanzi, umanizzando per quanto mi è stato possibile la sua figura. A questo punto, la scelta di un suo possibile interprete la lascio a chi, intanto, vorrà leggerlo.

David Usilla

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