PASQUALE QUAGLIA “DOVE NON SI TOCCA” analisi di Eloisa Ticozzi con intervista

PASQUALE QUAGLIA – SILLOGE: “DOVE NON SI TOCCA” analisi di Eloisa Ticozzi

 

“Dove non si tocca” è una silloge scritta da Pasquale Quaglia, pubblicata dalla casa editrice Dialoghi, collana Glifi, nel 2020. La silloge consta di 75 pagine. La prefazione, scritta da Fanny Cotignola, tratta della solitudine del poeta Quaglia, un senso di smarrimento che forse solamente la poesia riesce a colmare. Il suo mare Mediterraneo gli viene sempre in aiuto, portando nel cuore e nell’anima il profumo delle case della terra d’origine e la bellezza del mondo. La pandemia ha esasperato questa solitudine che però ha origini molto antiche nella condizione di un artista.  Una persona troppo sensibile rischia di non venire compreso nella sua profonda essenza.  Nella silloge si trovano dei versi riferiti a Pino Daniele e ai Pinguini Tattici Nucleari. Nella parte finale della silloge il poeta ringrazia alcune persone, fra cui la famiglia e il suo paese.

La poesia “I pesci tonno” esplicita la sensibilità del poeta Quaglia nei confronti degli animali. Ecco che i pesci assurgono come emblema di violenza perché egli descrive una natura che viene violentata dall’uomo il quale considera gli animali esseri inferiori. Ma sappiamo che non è vero, che tutto il creato è un’opera, sia dal punto di vista scientifico che spirituale, rispettabile. Diceva l’antroposofo Rudolf Steiner che gli animali si sarebbero sacrificati, attraverso la morte, per farci evolvere spiritualmente, e che in verità possiedono già anche un’anima.  Un animale soffre, respira, si nutre e inoltre percepisce le emozioni, anche se non le esplicita. “Non hanno palpebre i tonni”: forse il poeta Quaglia vuole, attraverso una similitudine, comunicarci la sensazione che egli è sempre vigile, con i sensi aperti alla creatività e al dolore. Il mare comunque è ricco di cibo per l’uomo, un aiuto fondamentale per la sua crescita; inoltre sono sempre fiorite civiltà attorno ad esso.

La poesia “Il peccato originale” tratta sia dell’infanzia sia dell’erotismo intriso delle Sacre Scritture. Il poeta Quaglia sente tutte le contraddizioni fra infanzia e età adulta. Ogni atto sessuale è fisico e istintivo, perché la natura ha permesso al creato di procreare e di godere della propria sessualità. “Un’Eva senza Adamo” rende l’idea della solitudine: secondo la tradizione esoterica, la prima donna creata da Dio era Lilith, che però non ammise la sottomissione da parte di Adamo e si unì ai demoni. Ma secondo la Bibbia la prima donna fu certamente Eva, nata da una costola di Adamo.  Così si mescolano, contrapponendosi, Genesi ed esoterismo, in un continuo sentire dell’autore Quaglia , che rimane “frutto di un peccato”.

Si parla di “Ginocchia bambine” nella silloge, la parte del corpo che cade durante la fanciullezza ma si rialza. Le ginocchia sono quelle protuberanze che si affacciano al mondo esterno, irto di pericoli, ma anche di gioie e di successi, intimi o mondani, poco importa.

In “Le radici” gli alberi sono esseri naturali che ci donano ossigeno, che ci amano, che compensano con “nutrimento” le nostre fatiche. Le radici si amano proprio come amanti, si intrecciano in un sottile gioco erotico di compiacimento (“Come teneri scolari che si tengono la mano”). Esse sanno nascondersi, sanno “sentire”, parlano tra di loro, si coprono dal mondo esterno, fanno gemere la parte visibile dell’albero, vale a dire il tronco.

Conosciamo, nella silloge, un tenero riferimento alla nonna nella poesia “Nonna Clelia”, con un ritorno alle origini, ai sentimenti primordiali, all’anzianità pensata come riferimento preciso di vita e di saggezza. Il poeta Quaglia riscopre l’età anziana, la sua importanza, le preghiere per rivolgersi alla persona cara nei momenti di solitudine. Quindi la morte diventa un progetto che non finisce, ma inizia in un altro mondo, in una dimensione non terrena, ma ugualmente magnifica.

In questa silloge si percepisce la lontananza rispetto alla famiglia e l’amore per il Meridione e per il mare che lambisce ogni dolore. Un tempo il Sud era la “Magna Grecia”, una terra nella quale i filosofi prosperavano, dove i pensieri si inoltravano nella metafisica e nella ricerca di archetipi e di numeri essendo un proseguimento della civiltà greca. Poi, dopo molto tempo ancora, il Meridione è diventato una culla anche per i Normanni e per gli Arabi, e molte altre civiltà. Una cultura variegata certamente, che però ha conservato le sue tradizioni, il cibo e il dialetto, i panorami mozzafiato con le montagne desiderose di affacciarsi sul mare.

In “La stagione delle feste di paese” si nota la dicotomia fra Milano, città distaccata e impenetrabile, e le usanze accoglienti, con le processioni e la religiosità manifesta. Da una parte, a Milano, ci sono i grattacieli, dall’altra parte, nel paese, ci sono i Rosari e le preghiere: una spiritualità quindi che viene da molto lontano, a volte superstiziosa, ma ugualmente pregna di cultura e di tradizione.

Il poeta Quaglia forse si definisce “bambino capriccioso” e la sua parola è muta, non esprimendo quello che vorrebbe davvero comunicare: quindi la poesia assurge come simbolo unico e strumento sensibile per raccontare. Ogni parola rapisce il significato dall’universo per immergersi in un foglio, in una piccola parte di mondo.

Ho apprezzato la sensibilità dell’autore Quaglia verso la natura e nei confronti del suo prossimo: ho amato molto il suo slancio vitale, la sua empatia e la sua commozione. Egli non vuole dimenticare le sue origini, la sua famiglia e la sua terra. Consiglio questa silloge a chi si vuole sentire parte di un mondo pieno di tradizioni, di descrizioni di luoghi diversi che accolgono Nord e Sud d’Italia. Il mondo appare crudele e sordo, ma anche colmo di spiritualità e di sentimenti spontanei.

 

 

 

INTERVISTA A PASQUALE QUAGLIA – SILLOGE: “DOVE NON SI TOCCA”.

 

Dopo aver analizzato la silloge: Dove non si tocca”, scritto da Pasquale Quaglia, edito da Dialoghi edizioni,  abbiamo  la possibilità di scambiare quattro chiacchiere con l’autore. Buongiorno, grazie essere passato a trovarci.

  • Qual è il tuo rapporto con il mare?

Come tutte le persone che abitano una città o un paese di mare, ho un rapporto simbiotico e contraddittorio, che si acuisce soprattutto quando ci si allontana, nella mancanza. In esergo al libro ho riportato dei versi di Pino Daniele, “Chi tene ‘o mare ‘o ssaje / porta ‘na croce”, che, a mio avviso, danno una rappresentazione ideale di questo legame stretto, e per certi versi asfissiante, pesante, tra il mare e i suoi cittadini. A questa concezione che mi permetto, senza pretesa, di definire “collettiva”, ne aggiungo un’altra, più intima, personale: per me il mare è un non-luogo, a-temporale, privo di spazio, un’idea che perde le sue connotazioni fisiche, soprattutto in occasioni particolari, per farsi, appunto, idea. E quando diventa questo significa che ho l’esigenza di rifugiarmi in questa concezione, l’unica, forse, in grado di annullare quelli che sono i tormenti di tutti e considerando che spesso le mie angosce e i miei dubbi non sono altro che una protesi di me stesso è il mare, dunque, a offrirmi l’opportunità di riuscire a mettermi da parte.

 

  • Come credi che gli affetti famigliari abbiano influito nel tuo essere poeta?

Gli affetti familiari hanno sicuramente influito nel mio fare il poeta piuttosto che nell’esserlo. Provengo da una famiglia con una cultura diversa da quella letteraria; mio fratello ha studiato tutt’altro e i miei genitori sono contadini, operai, persone semplici e, sottolineo, per me la semplicità ha un valore immenso, anzi per me non c’è niente di più poetico nell’osservare la gente del mio paese sostenere la quotidianità con il garbo e il decoro che soltanto l’umiltà e l’affetto per gli altri riescono a dare. Ecco perché uso il verbo fare piuttosto che essere. Perché per me la poesia risiede in loro, io non faccio altro che trascrivere immagini, scenari cui magari presto particolare attenzione, ma a essere poetici sono loro; il resto, lo scrivere, il giocare con le parole, per me quello è un accessorio. E tutto questo è importante. È importante quando qualcuno sostiene una materia di cui non ha conoscenza o comprensione; alla mia famiglia interessa poco se il mio scrivere riesca o meno, perché probabilmente neanche saprebbero riconoscerne la resa. A loro interessa che io creda in quello che scrivo. E quando ci credo mi sostengono senza neanche chiedersi il motivo.

 

  • C’è un argomento che provi difficoltà ad affrontare?

Sì, l’argomento Pasquale. Sono una persona logorroica, ma se c’è da raccontarmi sono avaro di parole. E anche quando scrivo è così. Cerco di utilizzare un filtro anche quando, ovvero sempre, metto me stesso nelle poesie.

 

  • Che legame c’è tra musica e poesia?

Più che legame andrebbero sottolineate le differenze, che sono poche, minime. Il verso ha, anzi deve avere una propria sonorità. Ci sono autori che prediligono ciò, il ritmo, il suono, anche a discapito di un senso più ampio, di una lettura alla portata di tutti. Basti pensare ai versi di Dino Campana, di Amalia Rosselli, per citarne alcuni. Se poi consideriamo quella che è la storia della lirica, a partire dai trovatori provenzali, il legame è ancora più nitido e le differenze sembrano quasi dissolversi.

 

  • Ti ispiri a qualche poeta classico?

Ho una predilezione per i contemporanei, tipo Campana che ho citato prima, Corazzini, per arrivare ai più conosciuti come Neruda, Hikmet, la Merini. Ma più che ispirazione, ecco, parlerei di gusto. A me piace leggerli, la scrittura viene dopo, altro non è che l’ultimo grado della lettura. Ovviamente non disdegno i classici, avendo anche una formazione in Lettere è quasi scontato. Su tutti Dante, su tutti e penso per tutti. Ma lì non c’è ispirazione. Dante è un simulacro. Si legge, quando si può, e va bene così.

 

  • Per la tua scrittura prediligi il verso libero, cosa pensi del verso in rima?

Penso che scrivere in rima richiede una grande tecnica che io non ho. Ho provato a farlo, ho pubblicato anche una raccolta di versi in rima, in dialetto napoletano, che è una lingua musicale e si presta, anzi è obbligatoria la rima, proprio per non perderne il suono. Per il resto preferisco il verso libero, proprio per la difficoltà della rima. Tanti ci provano, scrivono, ma pochi ci riescono. Se non hai questa capacità, infatti, finisci per fare il verso ai poeti di ieri e risultare fuori tempo, oltre che fuori luogo. Poi il verso libero dà una maggiore scelta nell’uso delle parole da utilizzare ed è questo il motivo cardine della mia preferenza.

 

  • Hai mai pensato di scrivere un romanzo?

Sì, spesso e più volte, ma senza esito. Non per mancanza di idee, ma di costanza. Il romanzo richiede l’abnegazione di un maratoneta. Ho scritto invece dei racconti. Con quelli riesco a perdermi di meno e a stare al passo. E poi, c’era chi diceva che scrivere un racconto è come vincere un incontro di boxe per K.O., un romanzo, invece, ai punti.

Grazie mille per la disponibilità a Pasquale Quaglia, arrivederci a presto sempre sulle pagine de I Gufi Narranti.

 

 

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