Intervista Al Prof. Berardino Palumbo – “Lo sguardo inquieto” – Marietti Editore

INTERVISTA AL PROF. BERARDINO PALUMBO – “LO SGUARDO INQUIETO” – MARIETTI EDITORE

Berardino Palumbo

Abbiamo da poco recensito “Lo sguardo inquieto”, scritto dal Prof. Berardino Palumbo, edito da Marietti Editore e abbiamo ora la possibilità di scambiare quattro chiacchiere con l’autore. Buongiorno, grazie essere passato a trovarci, possiamo darci del tu?

 

D: Quando è nato il suo amore verso l’antropologia?

R: La scelta di seguire l’indirizzo antropologico proposto tra i piani di studio de La Sapienza di Roma già nell’ lontano a.a. 1979/1980 fu del tutto casuale, non essendo – nell’area degli studi umanistici – attratto né dalla letteratura/filologia, né dalla troppo astratta, per me, filosofia. Restavano “libere” storia, archeologia e antropologia. E scelsi quest’ultima disciplina perché mi sembrava un’area più elastica e attuale. Poi la scelta fu confermata dalle lezioni di Italo Signorini, che insegnava etnologia, capace di affascinare con i suoi racconti di campo, e di Giorgio Raimondo Cardona, con la sua etnolinguistica.

 

D: Come l’antropologia può,  secondo Berardino Palumbo, eliminare il razzismo?

R: L’antropologia culturale, intesa in senso contemporaneo, nasce negli Stati Uniti di inizio XX secolo ad opera di un gruppo di intellettuali (Franz Boas, in primis, le sue allieve – Ruth Benedict, Margaret Mead – i suoi allievi – Alfred Kroeber, Ashley Montague) fortemente contrari ai determinismi razziali dell’Ottocento e imperanti in buona parte dell’Europa. La loro opera era volta, sul piano scientifico, a sganciare la dimensione culturale della vita umana da quella biologica (razziale) e a fare del piano culturale un piano autonomo d’analisi; sul piano politico il loro fu un impegno esplicito verso la costruzione di una società e uno spazio pubblico (statunitense) composti da differenze culturali (sociali e anche di classe) in alcun modo ascrivibili a pseudo-ragioni razziali. In questo operarono contro il senso comune statunitense e, negli anni della II guerra mondiale esplicitamente contro le declinazioni razziali e razziste presenti nella Germania nazista e nell’Italia fascista.  L’antropologia culturale e sociale, dunque, fin dai suoi esordi novecenteschi è fortemente anti-razzista. Non so se la nostra disciplina potrà mai arrivare ad “eliminare” il razzismo e le diverse forme di neo-razzismi, cripto-razzismi e razzismi-impliciti ancora oggi diffusi, ma certo la sua attenzione alla diversità culturale, alla pari dignità di ogni forma di vita sociale (oltre che individuale) e al suo essere dotata di senso per chi la vive (relativismo culturale, da non confondersi con un relativismo etico) è un antidoto ineliminabile contro ogni forma di intolleranza.

 

D: A suo avviso sarebbe utile l’introduzione della materia già alle scuole medie?

R: Sì, sarebbe utile che più che la disciplina in sé, quantomeno una sensibilità e un approccio antropologici divenissero d’uso corrente nella formazione, anche di scuola media dei nostri ragazzi (e anche dei loro insegnanti). Questo potrebbe essere fatto in vari modi: con insegnamenti ben calibrati e mirati, certo; ma anche modernizzando, de-classicizzando, sprovincializzando e de-nazionalizzando i programmi – sia delle media che delle superiori: le nostre ragazze e i nostri ragazzi possono conoscere bene Kant o Croce – imprescindibili, certo – ma sanno poco o nulla dell’espansione coloniale europea e del pensiero filosofico indiano o cinese. Nello stesso tempo sono portati ad immaginare continuità solide e positive tra loro e le donne e gli uomini dell’Atene di Pericle, e non sono invece condotti a riflettere sulle enormi differenze che li, che ci separano da quei mondi. Se “il passato è una terra straniera”, fra qualche decennio – in realtà già da qualche decennio – l’Europa sarà (solo) una delle province del mondo. In questo processo di sprovincializzazione dello sguardo nostro sull’altro e di provincializzazione del nostro immaginarci al centro del mondo la presenza di bambini/ragazze di diversa provenienza culturale può fornire opportunità didattiche importanti ad un insegnamento antropologicamente orientato.

D: Qual è, se c’è, il rapporto tra i social e l’antropologia?

R: Esiste ovviamente una oramai cospicua letteratura antropologica sui social (segnalo, ad esempio, un libro di un collega statunitense, Tom Boellstorff intitolato “Coming of Age in Second Life”, che evoca il famosissimo libro di Margaret Mead Coming of Age in Samoa, ed è una etnografia di Second Life). Si tratta di lavori prevalentemente anglofoni, anche se esistono colleghi che se ne occupano in Italia. Come sempre, si tratta di lavori a scarsa o nulla propensione moralistica o pedagogica – che tendono ad analizzare i processi in atto in maniera laica, considerando i social un aspetto di una tecnologia innovativa (costrittiva, certamente, ma anche innovativa, per molti versi e su piani anche profondi della soggettività e della cognizione) che, come altre tecnologie del passato (ad esempio la scrittura o quella visuale) stanno avendo impatti profondi sulle forme della socialità umana. Vi sono poi vari colleghi, anche italiani, particolarmente attivi nel mondo dei social (ad esempio Piero Vereni, che insegna a Roma Tor Vergata, Antonello Ciccozzi, che insegna all’Aquila).

 

D: Qual è il viaggio di studio che ricorda con maggior trasporto?

R: I nostri “viaggi di studio” sono esperienze di vita prolungate e complesse. Ripensando alle mie – come faccio nel libro – quella più “esotica” è stata certamente quella tra gli Nzema della costa sud-occidentale del Ghana, anche se poi il lavoro interpretativo mi ha portato ad evidenziare quanto quel mondo così apparentemente distante fosse poi profondamente connesso con il “nostro”. Dal punto di vista esistenziale, l’esperienza etnografica più coinvolgente è stata quella in un centro della Sicilia sud-orientale, come credo si intuisca leggendo i due conclusivi capitoli del libro.

 

Grazie mille a Berardino Palumbo per la disponibilità, arrivederci a presto sempre sulle pagine de I Gufi Narranti.

Sandra Pauletto

 

 

 

 

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