Spesso il male di vivere ho incontrato di Eugenio Montale: una lettura

Spesso il male di vivere ho incontrato di Eugenio Montale: una lettura

Spesso il male di vivere ho incontrato:montale

era il rivo strozzato che gorgoglia,

era l’incartocciarsi della foglia

riarsa, era il cavallo stramazzato.

Bene non seppi, fuori del prodigio

che schiude la divina Indifferenza:

era la statua della sonnolenza

del meriggio, e la nuvola, e il falco alto levato.

Al di là di ogni semplicistica e scolastica catalogazione e collocazione, Eugenio Montale occupa, nella poesia del Novecento il ruolo di testimone profondo della crisi del nostro tempo ed insieme di interprete originale, per la sua sensibilità e le sue soluzioni stilistiche, della condizione spirituale dell’uomo moderno. La negatività, che il poeta professa, intesa come rifiuto di qualsiasi verità precostituita e come amara coscienza del non-senso del vivere, si riflette e si traduce, come non hanno mancato di sottolineare i critici, specialmente a proposito della prima raccolta, Ossi di seppia, in un linguaggio scarno e ridotto all’essenziale, in immagini desolate, in una musicalità tante volte stridente.1

Nella lirica in questione, attestata anche in una fotocopia di alcuni autografi datati dallo stesso autore,2 oltre che nella prima stampa (1925) degli Ossi, il poeta, in un amaro consuntivo della propria vita, si accorge di aver incontrato nel proprio viaggio soltanto dolore: un dolore implacabile e senza ragione, che si abbatte indifferentemente su uomini, cose e animali. L’io-lirico parla in prima persona (“ho incontrato”, “Bene non seppi”), ma la sua esperienza assurge ad essere più generale, estensibile a tutta l’umanità: il male di vivere è un dato collettivo, ineliminabile della condizione umana. Questa accettazione di una situazione immodificabile presenta forti connotazioni di tipo etico: l’uomo deve prendere atto di questa drammatica situazione e affrontare con coraggio l’esperienza del male. Lo stesso poeta, a siffatta condizione insanabile dell’esistenza, non è riuscito a opporre altro se non l’indifferenza e il distacco, intesi come lucida consapevolezza della legge che incombe sul vivere dell’uomo. Il testo, allora, riproduce, anche strutturalmente con la sua netta divisione in due parti, i due momenti della riflessione del poeta: una prima con la constatazione del destino di dolore che accomuna tutti gli aspetti della realtà e simbolicamente si manifesta nella sofferenza delle cose più umili e quotidiane; una seconda ove il poeta enuncia la propria norma di vita, dolorosamente negativa (la scelta della «divina Indifferenza») emblematicamente sintetizzata nella fredda immobilità della statua e nel distacco della nuvola e del falco. Al male di vivere viene contrapposta, dunque, come un movimento che non obbedisce alla logica della sensazione o dell’intuizione, ma a quella del pensiero, la difesa dell’indifferenza attraverso altre tre metafore-immagini (la statua, la nuvola e il falco).

La dicotomia tra male e bene di cui parlano due recenti curatori degli Ossi,3 con diverso approccio (quello semiotico-strutturalista) era stata indicata anche da Angelo Marchese che aveva rilevato nella costruzione semantico-sintattica una chiara struttura isotopica. Secondo il critico genovese il primo sema (individuabile nell’espressione “male di vivere”) richiama le tre metafore della prima quartina mentre il secondo sema (bene) è rappresentato dalle immagini della seconda. Ora, i valori semici di “rivo”, “foglia” e “cavallo” altro non sarebbero che fattori di un archisema (privazione della vita) per cui il male rappresenterebbe l’impedimento affinché la vita si manifesti. L’archisema invece per le ultime tre immagini potrebbe essere visto come rinuncia, distacco, allontanamento dalla vita. L’opposizione spaziale di alto e basso è chiaramente data dal movimento di ascesa (statua, nuvola, falco) contrapposto a quello di caduta in quanto rivo, foglia, e cavallo sono tutti riferibili al basso, all’esperienza esistenziale: è il motivo dell’ineludibile accettazione della drammaticità dell’esperienza umana, del contatto fisico con i mala mundi, gli eventi che trasformano la vita in male.4 Non ci sembra però di minor importanza anche il livello del significante e cioè il netto stacco tra i suoni chiari e distesi della seconda quartina (la nuvoLA, e il fALco ALto levATo) contrapposti a quelli aspri (dati dalla sibilante s e z) della prima (incaRToCCiaRSi, aRSa, STRoZZato, STRamaZZato). Tuttavia anche in questa lirica l’impegno del poeta è volto a fissare nelle immagini della prima e seconda quartina il proprio modo di sentire creando un sistema di significati che trascende la situazione reale per porsi come emblema di una condizione esistenziale in cui tutti possano riconoscersi, nella convinzione che linguaggio e contenuto vivono in un rapporto di reciproca integrazione e interdipendenza .5 Dopo il primo verso c’è un passaggio dal soggetto alla realtà, dall’astratto al concreto mediante il verbo (“ho incontrato”) attraverso il quale il concetto trova la sua materializzazione/personificazione. A livello metrico le due quartine, formate da sette endecasillabi e da un alessandrino (un doppio settenario),6 confermano l’andamento corrosivo ma non disfattista verso buona parte delle strutture portanti delle forma poetica in quanto il poeta ha costantemente mostrato diffidenza nel rompere la compattezza delle istituzioni grammaticali, sintattiche e metriche. Nella metrica, se rimane ancora assai forte la continuità con la tradizione, parallelamente la presenza di versi ipometri, ipermetri, l’inserimento di rime imperfette, assonanze (come avviene per quella presente nell’ultimo verso: –alco, alto, –ato) e consonanze evidenzia le prime crepe della versificazione tradizionale. Nel 1931, infatti, scrive che «tutte le buone liriche sono chiuse e aperte insieme: obbediscono a una legge, anche se invisibile. Leopardi è evidentemente più ‘chiuso’ di Carducci. Tuttavia l’architettura prestabilita, la rima ecc., a parte l’uso che ne hanno fatto i grandi poeti, hanno avuto un significato più profondo di quanto non credano i poeti liberisti. Esse sono sostanzialmente ostacoli e artifizi. Ma non si dà poesia senza artifizio».7 Pure per la rima lo sperimentalismo fonico è incentrato sull’infrazione che ben si cela dietro un’uniformità metrica solo apparente. Occorre sottolineare, per esemplificare, l’uso della rima al mezzo

Spesso il male di vivere ho incontrato:

era il rivo strozzato che gorgoglia,

con “strozzato” (v. 2) che richiama, in rima interna, “stramazzato” (v. 4). Ricca, inoltre, la presenza di fonemi raddoppiati o geminati del tipo: spesso, strozzato, incartocciarsi, cavallo, stramazzato, geminazione che allude alla presenza ineludibile dei mala mundi.

Notevole il piano stilistico-retorico ad iniziare dall’anafora, nella stessa posizione sintattica,

era il rivo strozzato che gorgoglia,

era l’incartocciarsi della foglia

riarsa, era il cavallo stramazzato.

che serve ad introdurre l’apparizione dei tre elementi simbolici della prima quartina e crea un momento di dolorosa sospensione spezzando la coppia sostantivo / aggettivo tra la fine del v. 3 e l’inizio del v. 4 con l’enjambement. Anche i due versi finali si sviluppano senza soluzione di continuità concettuale e metrica in virtù di tale istituto metrico-sintattico, rallentando ulteriormente il loro ritmo nel verso conclusivo in due forti pause (o cesure). L’inversione sintattica (ottenuta attraverso l’anastrofe) del v. 5 serve al poeta per porre all’inizio del verso e della quartina il complemento oggetto “Bene” e sottolinearne la pregnanza come meta suprema delle aspirazioni umane. Inversamente, analoga posizione di risalto occupa il sostantivo “Indifferenza”, anch’esso disposto in una posizione che inverte (essendo soggetto) l’ordine sintattico della frase, in uno schema quindi rovesciato rispetto alla frase precedente. Si noti anche il climax semantico fra le tre immagini, senza tempo e senza storia, (rivo, foglia, cavallo) che culmina col massimo di negatività nella morte fulminante del cavallo

La formazione letteraria di Montale è talmente ricca e variata da disegnare un’ampia ragnatela di letture e di corrispondenze per cui è come se i suoi componimenti scaturissero da una saturazione culturale, mostrando «il gusto di lavorare su dati linguistici già formalmente elaborati».8 Egli, infatti, attinge dal patrimonio delle sue letture non pochi elementi di vocabolario, sottoponendoli ad un processo di scomposizione che li cita pur facendoli propri.9 Entriamo, seppur brevemente, nel rapporto tra il sistema poetico montaliano e la tradizione letteraria con qualche esemplificazione: già l’espressione “male di vivere” richiama Leopardi, prosastico e poetico,10 così come il suo primo emblema (era il rivo strozzato che gorgoglia) sembra chiaramente risentire di Inferno, VII, 125 (“quest’inno si gorgoglian nella strozza”), anche se un passo carducciano (“Velo argenteo per la nebbia su ’l ruscello che gorgoglia, / tra la nebbia su ’l ruscello cade a perdersi la foglia” in Presso una certosa, vv. 5-6) sembra molto calzante.11 Similmente Pascoli nei Canti di Castelvecchio: “Silenzio. Odo il ruscello che gorgoglia” (The hammerles gun, v. 69) e si potrebbero continuare ancora con lo stesso a proposito dell’incartocciarsi della foglia che ricorda “Ora ogni foglia stride e s’accartoccia” (CC, Diario autunnale, v. 7).

Per quanto attiene all’area lessicale potremmo individuare due grandi categorie: voci che appartengono al lessico quotidiano e voci del lessico filosofico.12 Per le prime si nota che i correlativi oggettivi esprimono riferimenti al mondo della realtà. In “rivo strozzato” l’aggettivazione connota l’idea di soffocamento proprio perché implica una notazione semantica antropomorfica; “gorgoglia” è parola onomatopeica, in cui è l’implicazione semantica del lamento di una persona; “foglia riarsa” è voce onomatopeica (incartocciarsi) con il correlativo oggettivo che esplicita il campo semantico dell’«arsura», della consunzione operata dai mala mundi.

Per le seconde si evince con chiarezza che “male di vivere” è sintagma ormai classico che unisce in maniera indissolubile l’esistenza al male. Scendendo alla morfologia troviamo al principio della lirica “spesso”, avverbio di tempo, che si riferisce all’iteratività della condizione umana; ha la funzione di connotare il sintagma fondamentale, “il male di vivere”, posto in posizione centrale, strategicamente rilevante.

Il tempo verbale tipico di tutta la lirica montaliana, l’imperfetto, con la sua iteratività allude a una dimensione esistenziale, per cui si spiega la serie anaforica degli imperfetti, costruita col verbo “era”. Il passato prossimo (ho incontrato) denota l’ amaro bilancio di una esistenza dolorosa, mentre il passato remoto “seppi” ha valore di esperienza oramai acquisita: la verità, seppur amara, della propria condizione umana.

1 Sulla lingua montaliana, soprattutto degli Ossi di seppia, cfr. il saggio di G.L. BECCARIA in Storia della lingua italiana, a cura di L. SERIANNI e P. TRIFONE, Torino, Einaudi, 1993, vol. I, pp. 738-742.

2 Cfr. E. MONTALE, Tutte le poesie, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori (“I Meridiani”), 1984, p. 1061. Le date apposte dall’autore ci permettono di assegnare la lirica probabilmente al 1924.

3 Pietro CATALDI e Floriana D’AMELY hanno curato l’edizione uscita per Mondadori nel 2003. Il saggio introduttivo è affidato invece ad uno specialista come Pier Vincenzo Mengaldo.

4 Desumiamo tali dati da uno dei più importanti lavori del Marchese, L’officina della poesia, Milano, Mondadori, 1985. Dello stesso autore bisognerà ricordare, per gli approfondimenti montaliani, anche Il segno letterario, Messina-Firenze, D’Anna, 1987 e soprattutto Visiting angel. Interpretazione semiologica della poesia di Montale, Torino, SEI, 1977.

5 Si tratta della pratica del cosiddetto «correlativo oggettivo» e sul quale è utile il saggio di P. BIGONGIARI, Dal “correlativo oggettivo” al “correlativo soggettivo”, in Montale e il canone poetico del Novecento, a cura di M. A. GRIGNANI e R. LUPERINI, Bari, Laterza, 1998, pp. 424-428.

6 Più dettagliatamente nella prima quartina di endecasillabi le rime sono incrociate, nella seconda che si estende ben oltre la misura dell’endecasillabo con un alessandrino, «il verso lungo più frequentemente usato da Montale» (cfr. A. PINCHERA, La metrica, Milano, Bruno Mondadori, 1999, p. 294 ), rimano solo i versi mediani (a schema dunque ABBA, CDDA). Il v. 5 è irrelato ma prodigio è legato da una rima interna imperfetta a meriggio (v. 8)

7 E. MONTALE, Sulla poesia, a cura di G. Zampa, Milano, Mondadori, 1976, p. 558. Sulla metrica cfr. M. ANTONELLO, La metrica del primo Montale (1915-1927), Lucca, Pacini Fazzi, 1991 e G. BARBERI SQUAROTTI, Gli inferi e il labirinto. Da Pascoli a Montale, Bologna, Cappelli, 1974, p. 196.

8 Cfr. P. V. MENGALDO, Per la cultura linguistica di Montale: qualche restauro, in ID., La tradizione del Novecento, Milano, Feltrinelli, 1975, pp. 297-317:301.

9 Ha scritto D’A. S. AVALLE che «la maggioranza delle immagini, frasi e parole giunte nella sua poesia [di Montale] da altri testi porta evidentissime tracce di un previo, profondo processo di vocabolarizzazione» (Tre saggi su Montale, Torino, Einaudi, 1970, p. 34): ciò testimonia la volontà montaliana di ricomporre le vibrazioni della lingua poetica universale in un nuovo, personalissimo modo di intendere il discorso in versi.

10 Cfr. G. LEOPARDI, Zibaldone, edizione commentata e revisione del testo critico a cura di R. Damiani, Milano, Mondadori (“I Meridiani), 1997, passi 4043, 4074, 4174-4176 e Canto notturno di un pastore errante dell’Asia, v. 104. Alessandra ZANGRANDI (Di Sbarbaro, D’Annunzio e Montale, in Stilistica,metrica e storia della lingua. Studi offerti dagli allievi a Pier Vincenzo Mengaldo, a cura di T. Matarrese e P. Trovato, Padova, Antenore, 1997, pp. 281-305) indica come questa espressione transiterà anche in Camillo Sbarbaro : «Delle ore trascorse, in cui l’anima cerca scampo dal male di esistere – poche che non si ha cuore di contarle – una per cui rivivrei (Trucioli, 275).

11 Cfr. F. BAUSI, Una donna di Montale: Esterina in «Studi italiani», VI (1994), pp. 119-127: 123.

12 Per la lingua montaliana sono fondamentali gli studi di P. V. MENGALDO, L’opera in versi di Eugenio Montale, in ID., La tradizione del Novecento. Quarta serie, Torino, Bollati Boringhieri, 2000, pp. 66-120 (poi riprodotto nella edizione CATALDI-D’AMELY, cit., pp. V-LXXII) e il paragrafo ne Il Novecento (in Storia della lingua italiana, a cura di F. Bruni, Bologna, Il Mulino, 1994, pp. 222-230). Si vedano anche V. COLETTI, Storia dell’italiano letterario, Torino, Einaudi, 1993, pp. 435-442 e A. BARBUTO, Le parole di Montale. Glossario del lessico poetico, Roma, Bulzoni, 1973.

Prof. Francesco Martillotto

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