La chiesa. Racconto di Sandra Pauletto

La chiesa

Era una piccola chiesa di campagna. Isolata, vuota, sola. Quasi come me.

Avevo smesso di creder in Dio da così tanto tempo che mi sembrava di non averci mai creduto. Ne conservavo un ricordo vago, di qualcosa di molto simile alla fatina dei denti, qualcosa in cui avevi creduto e riposto tutta la tua fiducia, per poi scoprire che era stato uno scherzo, un gioco degli adulti per farti comportare bene, come lo spauracchio del carbone per i bambini cattivi. Da un lato il carbone, dall’altro l’Inferno.

Chissà se li brucia lo stesso carbone che doveva portarmi la befana, penso sorridendo mentre un passo dietro l’altro mi avvicino al sagrato della chiesa. Voglio entrarci se è aperta, ma ora anche con le chiese non si sa mai. Sono i supermercati a fare l’orario continuato. La casa del Signore chiude. Carenza di vocazioni dicono, o eccesso di gente sveglia, dico io.

Cerco all’interno di questa chiesa arte ed un po’ d’ombra. Questo sole d’agosto mi picchia sulla testa da così troppo tempo che rischio di avere le visioni. Sorrido, se succedesse qui, ora, griderebbero al miracolo e magari mi proclamerebbero pure santo, io che bestemmio più del turco alla predica.

Stranamente la porta è aperta.

Finalmente un po’ d’ombra.

Mi hanno sempre affascinato le chiese con i loro dipinti e le loro geometrie. In ogni cosa un simbolo, nulla è lasciato al caso. Anche qui dentro, ora, mentre un brivido di freddo mi percorre la schiena per lo sbalzo termico. Non so perché le chiese sono sempre così umide. Mi guardo attorno e mi riempio gli occhi di piccole meraviglie d’arte. Non ci sarà stato Giotto dietro questi affreschi, ma questo non significa che debbano valere per forza meno.

E’ una piccola chiesa con un altare modesto, mi chiedo a quale ordine appartenga. E’ povera, vuota, pure troppo. Non ci sono neanche i banchi per sedersi, forse per questo è aperta: non c’è nulla da rubare né da sconsacrare, tranne quel piccolo altare e quel Cristo sofferente, con gli occhi buttati al cielo, appeso alla croce, su cui credo nessuno verrebbe voglia di inferire.

Questo fresco mi ha fatto uscire tutta la stanchezza. Ho bisogno di sedermi, non mi va di farlo a terra, ma non sembra esserci molta scelta, o mi sistemo a terra o sull’altare, oppure …

Sì, credo proprio che dentro al confessionale ci debba essere un sedile, qualcosa, sarà perfetto.

Sorrido, non ricordo se ci sono mai entrato per confessare i miei peccati, ma per logica nell’età che avevo quando frequentavo la chiesa, escludo che io potessi avere chissà quali peccati da confessare ad un Dio, che ci insegnavano a scuola, se non ti comportavi bene, ti manda all’Inferno, e non come gioco di parole.

Finalmente son seduto, credo che la sensazione che sto provando assomigli molto alla beatitudine: frescura, silenzio, penombra, quasi buio. Che posso chiedere di più? Chiudo gli occhi.

L’odore di incenso e cera mi riempie le narici al punto da assuefarmi.

“Padre, la prego, mi aiuti! “

Apro gli occhi, devo essermi addormentato. Dietro la grata che mi separa dall’altra parte del confessionale intravvedo una figura. Nella mia ignoranza ho scelto di sedermi dalla parte del prete, e ora questa povera creatura qui di fronte crede di parlare con un servo del Signore. Mi scappa da ridere, ma ho pena di lui.

Sta continuando a parlare, la mia presenza lo stimola ad aprirsi.

Resto in silenzio, lo ascolto. Non sembra avere bisogno del mio intervento, va a ruota libera come un treno. Mi vomita addosso tutta la sua ansia, la sua frustrazione, la sua colpa. Continua a ripeterlo: “È colpa mia, padre, tutta colpa mia.”

Intreccio le mani come pregando, chiudo gli occhi nascondendo la bocca dietro le mani. Non devo ridere, non posso, avrei dovuto fermarlo subito, ora devo continuare, che importa che io sia un prete o no?

La mia anima è certo più pulita di alcuni tonacati con il vizietto dei bambini. Questo pensiero mi vien su come un rigurgito improvviso al punto che non riesco a trattenermi, non voglio esser scambiato per uno di loro.

“Fermati!” – quasi grido.

L’uomo si ferma con mezza parola ancora in bocca, che non sa, se può chiudere o meno.

Mi guarda, e attraverso le grate vedo la paura nei suoi occhi, posso immaginare il lavorio del suo cervello, si starà chiedendo cosa può aver detto un attimo prima, per scatenare il mio disappunto.

“Fermati” – ripeto quasi sottovoce per rasserenarlo.

L’uomo si rilassa leggermente e chiude la bocca che seppur muta era rimasta appena aperta.

Sono pentito di aver interrotto il fiume delle sue parole perché ora devo fare qualcosa. Prima avrei potuto sparare a caso un numero imprecisato di Pater da recitare, scimmiottare una benedizione con le mani, assolverlo dai suoi peccati sperando che Dio assolvesse me per aver ricoperto un ruolo che non mi spettava.

L’uomo non mi toglie gli occhi di dosso. Aspetta che gli dica qualcosa, qualunque cosa.

Non ho più il coraggio di interrompere l’equivoco, mi fa pena, e così continuo la farsa:

“Perché sei venuto da me?” – gli chiedo con il tono più dolce che posso.

L’uomo dall’altra parte è a disagio, pare che la panchetta su cui sta seduto sia divenuta improvvisamente scomoda.

“Padre ma, ha ascoltato quello che le ho detto fino ad ora?” Ignoro la sua domanda perché la risposta è no. Non ero preparato a quel fiume in piena, è arrivato lì svegliandomi dal torpore in cui mi cullavo beatamente, parlando con tal foga che nessun individuo nelle mie condizioni avrebbe potuto capir granché, se poi ci aggiungiamo il fatto che mentre lui mi usava come sifone per la sua coscienza, io correvo dietro ai miei pensieri e mi concentravo sui muscoli del viso per non ridere, il quadro è completo.

Lo guardo negli occhi. Ci guardiamo. In silenzio. Spero che lui riprenda l’iniziativa e riparta come se non ci fosse stata alcuna interruzione ma non succede.

“Figliolo” – dico trattenendo in qualche modo uno scoppio di risa “Te lo richiedo, perché sei venuto da me?” a rompermi le palle, aggiungo tra me e me senza farmi sentire. Spero così in un riassunto ragionevole ma temo che questi riavvolga il nastro e riparta da capo, ansia compresa.

Invece tace, si guarda le mani o almeno così pare. “Io – balbetta – credevo che lei potesse aiutarmi.”

Ora non mi guarda più, continua a guardarsi le mani, i piedi, la pancia, non lo so.

“Quel che è fatto è fatto” – gli dico accompagnando la mia frase con un sorriso benevolo. Lui alza lo sguardo appena in tempo per vederlo. C’è stupore nei suoi occhi, evidentemente la risposta l’ha spiazzato, del resto io non sono un prete, che ne so che avrei dovuto dire? “Pentiti anima dannata!” forse era questo che si aspettava?

Era forse per il timore di questo che raccontava con tanta ansia? Non tanto per il fatto in sé, ma per il timore del giudizio degli altri prima ancora che quello di Dio?

Ci guardiamo un’altra volta.

Non vedo l’ora che se ne vada, anche perché se dovesse arrivare il titolare delle anime della parrocchia faccio una figura che voglio assolutamente evitare.

“Vai ora” – provo a stimolarlo.  E che il Signore misericordioso vegli su di te” butto lì tanto per sembrare più credibile.

“Posso andare?” – mi chiede tra il dubbio e l’incredulità, forse tutto sommato anche un po’ deluso. “Sono assolto?”

Dimmi la verità” gli dico con il tono secco di chi già conosce la risposta:

Eri felice in quel momento?”

L’uomo alzò gli occhi cercando i miei, restammo fermi per lunghi secondi. Sembrava gli costasse più fatica pronunciare la risposta piuttosto che non conoscerla, ma dopo qualche attimo ancora disse:

Sì, come mai lo sono stato in tutta la mia vita”.

Allora Dio era con te” gli dico “non hai nulla di cui confessarti, sei più che assolto, sei innocente”.

L’uomo finalmente sorride, snocciola di fila qualche “grazie” di troppo, non sta in sé dalla gioia. Non so come mi sia venuta quella risposta, ma a quanto pare era esattamente quello di cui aveva bisogno.

Aspetto che se ne vada, e poi, piano piano mi alzo e mi preparo a rimettermi in viaggio.

Mentre sto per uscire, entra il parroco, mi guarda dalla testa ai piedi. A giudicare dalla faccia di questo tonacato, se fosse arrivato qualche minuto prima ne io ne il ragazzo l’avremmo passata liscia. Io avrei ricevuto un calcio nel sedere, e lui sarebbe ancora in ginocchio a pentirsi con pater e mater a profusione.

E’ arrivato giusto in tempo” gli dico.

Posso aiutarti?” mi chiede allora con curiosità.

No, no, grazie. Stavo giusto andandomene” e così dicendo uscii dalla chiesa strizzando l’occhio rapidamente a quel cristo in croce che per un attimo sembrò alleviato dalle sue sofferenze e con un leggero sorriso.

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