Jurassic World – Il Regno Distrutto – Spettacolare, banale e buonista.

Jurassic World – Il Regno Distrutto

Anno: 2018

Titolo originale: Jurassic World: Fallen Kingdom

Paese di produzione: USA, Spagna

Genere: avventura, fantascienza

Regia: Juan Antonio Bayona

Produttore: Belèn Atienza, Patrick Crowley, Frank Marshall

Cast: Chris Pratt, Bryce Dallas Howard, Rafe Spall, Justice Smith, Daniella Pineda, Toby Jones, Ted Levine, James Cromwell, Isabella Sermon, Geraldine Chaplin, Jeff Goldblum, BD Wong, Peter Jason, Robert Emms, Conlan Casal

Un veicolo subacqueo si aggira silenzioso in un territorio abissale. Si pensa che la vasca del Mosasaurus di Jurassic World sia ormai disabitata e perciò viene scandagliata per recuperare il dente dell’Indominus Rex che lì terminò la sua esistenza. I cacciatori avevano fatto male i loro conti e come se non bastasse, nella fuga, con il reperto sotto vuoto, dimenticano il portone aperto permettendo al gigantesco rettile marino di gozzovigliare nell’Oceano. Non è tutto. Su Isla Nublar il vulcano ha iniziato ad eruttare e questo minaccia la sopravvivenza dei dinosauri che la abitano.

Questa partenza spettacolare unifica svolgimento e conclusione del film, facendo capire allo spettatore che la distruzione del vecchio regno (quello di Isla Nublar) comporterà l’occupazione di un nuovo regno, il nostro.

Il nuovo corso del soggetto che Spielberg portò sul grande schermo nel ’93, si acquatta in una zona ideale intermedia, ricalcando un po’ l’immaginario dei due film del cineasta americano, ma allo stesso tempo uniformandosi con modelli cinematografici più comuni e ancora più classici. Se Jurassic Park e Il Mondo Perduto – Jurassic Park potevano vantare una narrativa originale e dei personaggi tutt’altro che scontati, Jurassic World e il seguente Il Regno Distrutto propongono un largo ritorno ai grandi clichè. Chris Pratt (che comunque si conferma un super interprete d’intrattenimento) si va ad accodare alla sfilza infinita di eroi massicci ed invincibili, così come Rafe Spall si infila nei panni visti e stra visti di Eli Mills, l’ennesimo avido magnate disposto a tutto per uno sporco milione di dollari in più; per non parlare del caro e buon vecchio Ted Levine, che con Ken Weathley occupa la milionesima posizione del militare duro e ignorante, senza infamia ne lode. Non occorre certo uno scienziato (e qui ce ne sono tanti) per capire che, per quanto riguarda i personaggi, siamo precipitati nella fiera del riuso. Al ritorno del povero Jeff Goldblum e del suo storico Ian Malcolm, unica vera mente illuminata della congrega, viene riservato un ruolo molto marginale, quasi da voce fuori campo. Il fatto è che, senza citare altri grandi franchise del divertimento spicciolo hollywoodiano, anche Jurassic Park ha subìto la sua dose di massiva serializzazione commerciale che comporta tanta quantità e poca qualità.

Nella tradizione dell’eterno ritorno non può mancare anche la sfilata del Brachiosauro. A qualcuno ricorda qualcosa?

La trama, nonostante si differenzi dal seguito di Jurassic Park, in maniera scaltra segue più o meno gli stessi passaggi e gli stessi risvolti: è il momento in cui i dinosauri vengono sdoganati al Mondo, tutti i canali ne parlano e i primi investitori sono pronti ad acquistarli per cifre da capogiro. Come ne Il Mondo Perduto è del rapporto tra la nostra società e la libertà delle creature preistoriche che si parla. Perciò che ci si giri da una parte o dall’altra, il pantano in cui astutamente Jurassic World – Il Regno Distrutto ci tiene comodamente seduti sulla poltrona, non è niente di nuovo. Ma c’è di peggio. Se lo scopo dei film di Spielberg, pieni comunque di un’ammirazione smisurata e magnifica nei confronti dei dinosauri, era quello di metterci in guardia dagli abusi genetici e dalla sua conseguente spettacolarizzazione, qui tutte le strade portano ad una glorificazione del miracolo della ricreazione. L’errore più grande sta nella sceneggiatura di Colin Trevorrow, che rivela una pecca grossolana, troppo funzionale al buonismo da platea. Un dinosauro creato in laboratorio, la cui esistenza è minacciata da un cataclisma naturale, deve essere salvato? Ian Malcolm si dice sfavorevole, ma Claire Dearing (Brice Dallas Howard), colei che dirigeva il parco, vuole salvarli a tutti i costi. Ribaltamento degli opposti? Errore di prospettiva? Hollywood non si preoccupa certo di questi dubbi e arriva a contagiare anche un regista spagnolo, che fa’ il suo lavoro all’americana: con grandi budget, diverse tonnellate di effetti speciali bellissimi, alcune sequenze che si fanno ricordare per la loro potenza visiva (la fuga dall’isola su tutte), ma con una sceneggiatura ai confini della realtà.

Su quest’ultimo punto l’impoverimento rispetto a vent’anni fa è abissale. A quei tempi almeno l’80% di quello che si vedeva, nella sua finzione, aveva un senso, adesso è tutto funzionale a quello che il regista vuole rappresentare, a costo di smontare la logica e la fisica (la sequenza sul tetto della tenuta Lockwood è pura follia immaginifica). Il cinema d’evasione da grande incasso sta inoltre rivedendo la categoria di pubblico a cui rivolgersi, preferendo un approccio più infantile e sempre più politicamente corretto; mica come Jurassic Park, dove il caro Stevie non aveva paura di far vedere prima una stanza piena di pupazzi giurassici e subito dopo il braccio di Samuel L. Jackson mozzato da un Velociraptor. Fulcro principale per i nuovi registi sembra quello di presentare sullo schermo animali preistorici sempre più antropomorfi, più intelligenti, più spietati e in definitiva il più possibile vicini all’uomo. Un’evoluzione che li allontana dal loro fascino primigenio naturale, primitivo e ferino. In conclusione, superata la stimabile patina di spettacolo imbastito da Juan Antonio Bayona, attraverso un consapevole uso della suspense e della rappresentazione visiva, si ha l’impressione che la vecchia magia l’abbiamo smarrita da un pezzo.

Zanini Marco

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